Nel dolore di un padre

L’amore incondizionato verso i figli. L’impotenza di non poter salvare chi si ama di più al mondo. Di conseguenza, la rabbia e il dolore. Questo mi viene in mente quando guardo il “Laocoonte” (I secolo d.C., scultura in marmo, Musei Vaticani).

« Questa è macchina contro le nostre mura innalzata,
e spierà le case, e sulla città graverà:
un inganno v’è certo. Non vi fidate, Troiani.
Sia ciò che vuole, temo i Dànai, e piú quand’offrono doni. »

(Commento di Laocoonte di fronte ai Troiani; Publio Virgilio Marone, Eneide, libro II, versi 46-49)

Il gruppo statuario mostra il momento finale di una lunga vicenda: Laocoonte è un veggente abitante di Troia e diventa protagonista nel momento in cui nella città entra il famoso cavallo usato per ingannare i troiani. Egli si oppone alla decisione di far entrare il cavallo in città e per questo motivo Atena, o secondo un’altra versione Poseidone, invia Porcete e Caribea, due enormi serpenti marini che stritolano i suoi figli e lui stesso, nel momento in cui accorre per salvarli. Al centro spicca il corpo di Laocoonte con i muscoli in tensione nel tentativo di liberarsi dai mostri, il busto si inarca in modo esagerato, evidenziando lo sforzo, e il movimento è continuato dalla testa che si appoggia sulla spalla sinistra; sul suo volta regna già la desolazione poiché percepisce la bocca del serpente che sta per morderlo al fianco e sa che sarà la fine, sua e, inevitabilmente, anche dei figli. Dei due ragazzini quello di destra appare essere nella situazione più difficile, completamente avvolto dalle spire del mostro, non sembra trovare una via di fuga, al contrario del fratello maggiore il quale sta per liberarsi la caviglia e può avere una speranza di salvezza.

Ciò che colpisce quando ci si trova davanti alla statua è la capacità dell’artista che è riuscito a esprimere il dolore di un uomo in maniera così dignitosa, un padre distrutto che in qualche modo riesce ancora a trasmettere fierezza.

Proprio questa posatezza viene presa come esempio da Lessing, filosofo tedesco che tratta di estetica e ritenuto un importante esponente dell’Illuminismo settecentesco, che scrive un’opera intitolata Del Laocoonte nel 1766, nella quale confronta i mezzi delle arti figurative e di quelle letterarie. Egli ritiene che dal punto di vista estetico (dove per estetica si intende la branca della filosofia che studia l’arte e le sue manifestazioni) tra i due ambiti c’è una netta differenza. Lessing sostiene che, nel momento in cui leggiamo il passo in cui Virgilio ci descrive la sorte di Laocoonte, noi riusciamo a oltrepassare l’immagine che arriva alla mente di quest’uomo che spalanca la bocca per il dolore, in quanto lo conosciamo già come patriota e padre amorevole e come tale suscita in noi un sentimento di affetto e riconduciamo il suo grido all’insopportabile pena che sta patendo. Quando si parla di scultura o pittura, però, ciò che conta è ovviamente l’immagine e per questo l’espressione del dolore fisico deve sottostare a una precisa misura, la quale scaturisce dalle esigenze di ogni singola forma d’arte. Secondo Lessing, per quanto riguarda le arti visive, il loro oggetto è la bellezza visibile nella sua perfetta proporzione e regolarità, mentre il fulcro della poesia sarà l’espressione in cui potranno rientrare l’imperfezione e la bruttezza.

Nella plastica lo scultore è obbligato a rappresentare un’azione congelata in un istante, eliminando lo scorrere del tempo, e per questo deve limitare la presenza del brutto e del raccapricciante, mentre, al contrario, la poesia che rappresenta azioni che si svolgono in un lasso di tempo può inserire il brutto che, mai fine a se stesso, deve contribuire allo scopo artistico.

Ora il mio consiglio è solo quello di  godersi lo spettacolo di un’opera che riesce a rapire l’immaginazione e i sentimenti. Certo non sono molto imparziale…ma chi di noi lo è quando parla di qualcosa che ama?

Cristina Cattaneo

Ted (Non preoccupatevi, non è un’altra inutile pagina di Facebook)

TITOLO: “Ted”

REGIA: Set McFarlane

GENERE: Commedia

DURATA: 1o6 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Giovedì 4 ottobre 2012

Ted è un film che ha già nauseato chi frequenta abitualmente il web e Facebook.

Che un orsetto di peluche, animato grazie ad un desiderio natalizio, fumasse il bong lo si sapeva già da mesi e da fastidio un pubblico che va al cinema sapendo già di cosa ridere.

Mi spiego meglio. Domenica sera, in centro a Milano, al cinema Odeon, l’orsacchiotto di Set MacFarlane si è esibito davanti ad una sala quasi piena a poco meno di tre settimane dalla sua uscita nelle sale italiane. Si tratta evidentemente di un fenomeno in cui molti vogliano mettere la propria firma, dire “c’ero anche io” per poter ridere alle sue battute e citarle nelle prossime settimane sui social network. Ecco perché Ted, un film dal concept geniale, non ha il pubblico che si merita.

Tralasciando gli imbarazzanti applausi, estremamente fastidiosi, in sala ad ogni battuta del film (neanche fosse la prima di Frankenstein Jr.), sono rimasto basito da un elevato numero di persone che, bene educate e indottrinate da trailer e spoiler continui, sapevano già quando ridere e quando sarebbe arrivata quella precisa battuta che avevano letto s quel post. La triste verità è che la vera comicità di MacFarlane, quella fatta di non-sense e ripetizioni quasi ossessive, è stata colta da pochi e le battute migliori sono passate tristemente silenziose (a parte il sottoscritto che rideva da solo nel buio della sala), immeritatamente in sordina rispetto alle parti più grossolane e pubblicizzate. La canzoncina del temporale fa ridere ma molto più divertente è la descrizione tagliente e “piazzata lì” delle capacità attoriali di Sam J. Jones nel pluricitato Flash Gordon (1980). Fa ridere il teddy bear coccoloso e un po’ sgualcito strafatto di erba che dice parolacce, ma in pochi, a parere di chi scrive, sono stati in grado di apprezzare in pieno un film che merita una lettura decisamente meno volgare e superficiale di quella che gli viene dedicata.

Se il pubblico in sala prende un’ insufficienza grave (ma il pubblico cinematografico di Milano raramente andrebbe promosso), il film passa con buoni voti.

Come già detto, l’idea di base è eccezionale e segna un buon passo avanti nella rilettura sempre più televisiva e fumettistica del cinema. Il creatore de I Griffin ne approfitta per inserire una buona dose di cattiveria e di irriverenza, senza paura di estrarre dal cappello dell’immaginazione battute a carattere sessuale delle più esplicite e una rilettura coraggiosa della tipica favola di Natale che porta, nelle locandine, l’orsacchiotto Ted ad autocensurarsi.

Apprezzabile il lavoro registico che raggiunge il proprio apice nella sequenza in cui, dopo aver sniffato cocaina (altro tema difficile che MacFarlane tratta con una leggerezza quasi preadolescenziale), l’orsacchiotto e il protagonista Mark Wahlberg decidono di aprire un bar. Lì la cinepresa è in grado di seguire i pensieri confusi e allucinate dei due protagonisti, disegnandone il ritmo e la confusione.

Bravi i due principali attori umani: il già citato Mark Wahlberg e Mila Kunis che formano una coppia credibile e ben assortita, nella trama così come nell’intesa in fase di ripresa.

Un altro articolo dedicato meriterebbe l’effetto speciale che da vita a Ted sullo schermo. Set MacFarlane ha utilizzato una tecnologia molto simile a quella impiegata da Peter Jackson sul set de Il Signore degli Anelli per realizzare Gollum. La differenza sta nella possibilità, per MacFarlane (regista e protagonista del film) di poter indossare la tuta davanti alla telecamera interagendo fin da subito come orsacchiotto di peluche con gli attori in carne ed ossa, mentre Andy Serkis (Gollum), pur recitando fin da subito, doveva fare ulteriori riprese da solo per potersi trasformare nella creatura descritta da Tolkien. Questo sistema offre una possibilità di variare e improvvisare illimitata ed una naturalezza sullo schermo che deriva proprio dall’interazione massima tra digitale e umano.

Bel film, si ride molto e si rimane sorpresi da una violenza da cartone animato che non si limita nemmeno di fronte al picchiare bambini. Unica pecca: il finale. Non si anticipa nulla in questo articolo, ma bisogna sottolineare come il film perda tanti punti a causa del suo stesso epilogo. Iniziata con un bambino ebreo picchiato per le festività, la pellicola perde in cattiveria man mano che avanzano i minuti fino a giungere ad una conclusione buonista che tradisce lo spirito iniziale e che risulta dolciastra ed indigesta. Certo, fanno ridere le scritte in coda alla Animal House, ma ci sarebbe da chiedersi quanto la produzione abbia influito sulla stesura del testo o preoccuparsi per una inspiegabile sconfitta della parodia e della cattiveria da parte di MacFarlane che, in ogni caso, sorprende in negativo proprio all’ultimo, dopo una prestazione decisamente meritevole.

Simone Falcone

E poi, Paulette…

Quanti di noi, soprattutto tra i giovani, non prendono in considerazione quanto le generazioni più anziane possano esserci d’aiuto?

Lo so penserete che questa sia la solita filippica sociale noiosa all’insegna di frasi trite e ritrite come “aiutiamo gli anziani”. Beh no, è molto diverso.

Per caso di recente mi è passato sotto mano E poi, Paulette (Einaudi Editore, 2012) della francese Barbara Constantine; un genere di romanzo che in periodi come questi, caratterizzati da profonda solitudine sociale, può davvero costituire un’ancora di salvezza.

La storia di Ferdinand non punta semplicemente a toccare le corde dell’animo di chi legge, cosa che potrebbe fare un qualsiasi librucolo dai temi smielati approfittando dei soliti temi emotivamente validi, ma anzi va ad appassionare il lettore con un vortice di storie diverse, che partono tutte divise l’una dall’altra per poi finire a concentrarsi in un unico grande nucleo finale.

Bambini, adolescenti, anziani, asini, gatti, cani e topi sanno fare da sfondo alle appassionate vicende che si svolgono all’interno della fattoria del vecchio Ferdinand. Cornelius arriva addirittura a sembrare un animale che non sfigurerebbe all’interno di “Alice nel paese delle meraviglie”, ma nonostante ciò la Constantine tiene sempre ben saldi al suolo i piedi della storia, ambientandola in una Francia che a giudicare dalle fredde e avverse condizioni climatiche potremmo localizzare come la zona prossima alla Manica.

Questa storia affascina anche per un certo richiamo ai grandi agronomi latini, sostenitori della cellula autoproduttiva: in queste vesti ritroviamo la simpatica Marceline, povera contadinella dalle più svariate conoscenze ortofrutticole che riesce a sfamare sé e il resto della fattoria attraverso la sola coltivazione del suo orto, ma che al contempo diventa il pilastro portante della “grande famiglia” assieme a Ferdinand, con il quale riesce ad avere un’incompiuta storia d’amore che non riuscirà mai a suggellarsi con un vero ed appassionato bacio, ma solo con esitazioni adolescenziali totalmente estranee a dei sessantenni.

Barbara Constantine in questo libro inoltre opera la singolare scelta di eliminare i dialoghi canonici, come ce li hanno fatti conoscere i grandi scrittori della letteratura, ma decide di confondere il lettore andando a neutralizzare quella che è la specificità dei differenti dialoganti all’interno del libro, di modo che chi legge sia sempre profondamente affascinato dal riuscire a capire chi sta parlando nonostante questo non sia mai specificato.

Ludovico Barletta

Da 50 anni Bond…James Bond!

Infatti, da mezzo secolo esatto il più celebre agente al servizio segreto di sua maestà ci fa ogni volta divertire ed emozionare al cinema con le sue fantastiche avventure.
Nato dalla penna dello scrittore britannico Ian Fleming (che, come dice la leggenda, iniziò a scrivere romanzi per scampare alla noia della vita coniugale) l’agente con licenza di uccidere 007, che ruba il nome ad un celebre ornitologo dell’epoca, fece la sua prima comparsa nel romanzo “Casino Royale” del 1953. Da allora, dato il successo di quella prima storia, Fleming scrisse e pubblicò un romanzo o una raccolta di racconti sul suo personaggio ogni anno, fino alla propria morte, avvenuta nel 1964 (anche se l’ultima raccolta, “Octopussy”, venne pubblicata postuma nel 1966). Dopo che i produttori Harry Saltzman e Albert R. Broccoli (fondatori della EON Productions) acquistarono nel ’61 i diritti di quasi tutti i romanzi di Fleming (con l’eccezione di “Casino Royale”, i cui diritti sarebbero stati acquistati solo nel ’96), nel 1962 uscì il primo film tratto dai romanzi, “Dr No” (tradotto in italiano come “Licenza di Uccidere”).

Nei panni dell’agente segreto c’era un semi-esordiente attore scozzese, che da quel momento sarebbe stato identificato come lo 007 per antonomasia, ovvero Sean Connery. Tuttavia, dopo 5 film, Connery (in seguito a litigi di natura economica con i produttori e timoroso di rimanere per sempre incatenato al personaggio) lasciò la saga, venendo sostituito dal modello Goerge Lazenby; il quale però abbandonò il ruolo dopo solo un film, “Al servizio segreto di sua maestà”, in quanto la sua interpretazione non incontrò il favore del pubblico. Connery quindi si vide costretto a ritornare per il successivo “Una Cascata di Diamanti”, in seguito al quale abbandonò definitivamente la serie (anche se nel 1983 avrebbe interpretato per l’ultima volta Bond nell’apocrifo “Mai dire mai”).

A raccogliere la sua eredità venne chiamato un celebre attore britannico, Roger Moore, che con ben 7 pellicole all’attivo (interpretò ininterrottamente il personaggio dal ’73 all’ ’85) è ricordato come il Bond cinematografico più longevo e senza ombra di dubbio più divertente, in quanto tutti i suoi film sono caratterizzati da uno spiccato humor tipicamente inglese.

Dopo Moore, fu la volta di Timothy Dalton, che interpretò Bond dall’ 87 all’ 89. Questi, da bravo attore shakespeariano, per prepararsi al ruolo lesse approfonditamente tutti i romanzi, cosa che rese il suo 007 molto più umano, realistico, fragile e capace di commettere errori, riavvicinandolo molto all’originale idea fleminghiana del personaggio.
Purtroppo, causa i molti problemi della produzione e lo scarso successo di pubblico dei due film con lui protagonista, Dalton fu costretto presto ad abbandonare il ruolo.

Infine, con il fortunatissimo “GoldenEye” del 1995 (chiamato così in omaggio alla villa in Giamaica dove Fleming scrisse i suoi romanzi) ebbe inizio il periodo di Pierce Brosnan, attualmente uno degli interpreti più apprezzati della serie.

L’attuale Bond del cinema è Daniel Craig, che nei film finora da lui interpretati (“Casino Royale”, “Quantum of Solace” e l’imminente “Skyfall”) ha saputo far riavvicinare ancora una volta il personaggio all’idea originale del suo autore, ovvero quel giusto insieme di durezza, fragilità, emozione e ironia.

In conclusione ricordiamo alcuni degli elementi tipici dell’universo di Bond: le auto (la mitica Aston Martin ne è un perfetto esempio), le sensuali e a volte letali Bond-Girls, il buon Q e le sue invenzioni sempre azzeccate alla situazione, le leggendarie Title Tracks che ogni volta ci introducono ad una nuova avventura. Insomma, tutto fa pensare che il nostro eroe possa farci sognare almeno per altri 50 anni, ma intanto, per festeggiare questo primo mezzo secolo, l’appuntamento è al cinema per il 31 ottobre, data di uscita del 23esimo film della saga, il già citato “Skyfall”.

Giacomo Buzzoni

Il Ritorno del Cavaliere Oscuro – Le Scelte Difficili di Nolan

TITOLO: “The Dark Knight Rises”

REGIA: Christopher Nolan

GENERE: Azione – Drammatico

DURATA: 165 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Mercoledì 29 agosto 2012

Parliamo dell’ultima opera di Cristopher Nolan.

Parliamo di un film montato ed atteso per più di un anno e che, al suo debutto nelle sale, non delude le aspettative.

Numerose le critiche. Si accusa, innanzitutto, il regista britannico di magniloquenza e di aver richiesto troppo da un solo film.

Eppure, in questo capitolo, Nolan ha fatto scelte incontestabilmente pericolose quali mettere come avversario del cavaliere oscuro uno dei nemici più sconosciuti dell’universo DC: Bane, e di inserire in un film che aveva già detto di no al pop gotico di Burton e al pop punk di Schumacher, uno dei personaggi più pop di Batman, un personaggio, Catwoman, di cui, oltretutto, tutti noi nutriamo pessimi ricordi dopo l’interpretazione quasi pornografica e, incredibilmente, viste le premesse, sterile di Halle Berry.

Nolan, poi, non contento di tutto ciò, assegna la parte di Catwoman (che poi Catwoman non è, nel film) ad una delle interpreti femminili più in ombra di Hollywood. Se, infatti, in un’indagine per le vie di Milano avessimo chiesto di Anne Hathaway nessuno, prima di The Dark Knight Rises avrebbe saputo dirci alcun suo titolo, se escludiamo Il Diavolo Veste Prada in cui, comunque, l’interpretazione dell’attrice passa in secondo piano rispetto a quella magistrale, che nulla ha a che vedere con l’immeritato Oscar in Iron Lady, di Maryl Streep. Questo non perché non abbia fatto altri film che hanno goduto di discreto successo, ma perché l’attrice si è sempre persa nel panorama delle belle ragazze da commediola romantica senza mai lasciare l’impronta della propria presenza. Ma la Hathaway si dimostra straordinaria firmando, forse, il film della carriera. Sexy, sgamata, pungente e ancora sexy, l’attrice recita la parte di una ladra disincantata, dal passato turbolento, che riuscirà a raggirare Bruce Wayne/Christian Bale in più di un’occasione, sempre con enorme charme e classe, esibendosi in pose ginniche che hanno dell’incredibile e in battute scritte alla perfezione per un personaggio scrittole addosso che non ha niente da spartire con la Catwoman dei cartoni animati.

Ma un film come Il Ritorno del Cavaliere Oscuro, un film di una portata epica che ricorda molto i vecchi kolossal biblici, non può reggersi solo sui buoni. Ed ecco, allora, che i fratelli Nolan chiamano in causa il peggiore dei cattivi. Alcuni tra i più appassionati ricorderanno Bane nel fallimentare  Batman e Robin dove Schumacher si era divertito a ridicolizzare un personaggio tra i più complicati dei fumetti degli anni ’90, disegnandolo come un grosso patetico drogato privo di capacita cerebrali e cognitive. Il regista, invece, lo trasforma in un avversario che non ci fa rimpiangere il Joker, comunque insuperabile, di Heat Ledger. Lasciando da parte le futili ed alquanto tristi critiche dei putristi del fumetto per i quali non esisterà mai un film adatto a riportare sullo schermo degli eroi e dei miti che, forse, avrebbero dovuto abbandonare dopo i tredici anni, questo Bane merita un’attenzione speciale. È vero, il Bane disegnato da Graham Nolan è un sudamericano strapompato grazie ad una droga sperimentale chiamata Venom (da non confondersi con il Venom nemesi di Spiderman), mentre quello del film è un uomo molto forte, addestrato per anni, senza cavetti attaccati sulla schiena e maschere da lottatore di Wrestling anni ’90, che viene imprigionato da qualche parte in un deserto mediorientale e non fugge dal suo carcere fingendosi morto come fece Edmond Dantes, ma saltando su delle rocce per risalire un pozzo che non ricorda assolutamente la prigione di Santa Prisca ideata dagli sceneggiatori Chuck Dixon e Doug Moench. Ma Cristopher Nolan non ha rivoluzionato Batman abbandonandosi alla facile imitazione delle omonime strisce.

L’attore scelto e Tom Hardy che sfoggia una muscolatura quasi fumettistica in parte ereditata dall’eccezionale Warrior (2011) che si ritrova, costretto dentro una maschera che ricorda il muso di un babbuino, a dover recitare con gli occhi. Una sfida ampiamente vinta grazie a sguardi intensi e significativi, degni di un grande attore, supportati da una gestualità complicata e studiata ricca di atteggiamenti e pose, come l’afferrarsi la giacca con entrambe le mani, che rendono il personaggio assolutamente unico. Una delle migliori nemesi della cinematografia degli ultimi anni.

Il resto del cast non ha bisogno di presentazioni o di troppe parole e si conferma straordinario come nei primi due film della saga di Batman e in The Prestige, nel caso di Christian Bale e di Michael Kane.

Michael Kane è fantastico nel ruolo del maggiordomo Alfred che, pur sparendo per una buona metà del film, farà pesare come macigni i propri minuti di presenza confermandosi perfetto nel suo ruolo, scatenando nel disagiato Bruce Wayne una serie di sentimenti contrastanti che porteranno a delle scelte molto sofferte.

Gary Oldman arrabbiato che urla le propria morale tradita in un quasi primissimo piano, vale il prezzo del biglietto. Il commissario di polizia di Gotham City stupisce per le proprie scelte e per l’intensità impressa sullo schermo di un eroe di guerra che si sente spaesato in un momento di pace.

Bale è il miglior Batman di sempre e lo urla per tutto il film, lo afferma e lo conferma in una prova ancor più difficile delle precedenti.

Morgan Freeman è calato sempre meglio nei panni di un Lucius Fox che non ha paura di scottarsi, irriverente e dimentico, come sempre, dei propri anni.

Infine, Joseph Gordon-Levitt nel ruolo di un giovane poliziotto orfano che sembra aver già capito tutto, è desideroso di confermarsi in un ruolo ancor più lungo e complicato rispetto a quello riservato per lui in Inception e, a tratti, ce la fa, distinguendosi in mezzo ad un esercito di stelle già più affermate e amate dal pubblico.

Quella di Cristopher Nolan è stata una prova coraggiosa, dalle prime battute del film fino all’inizio dei titoli di coda. Il giovane regista conferma ancora una volta di poter diventare uno dei migliori nel panorama Hollywoodiano, rifiutando il più possibile il digitale e compiendo scelte difficili e rischiose sia nella sceneggiatura che in fase di ripresa e montaggio.  Il film è la conclusione perfetta e bilanciata per la saga non di Batman ma di Bruce Wayne, un Bruce Wayne che non è più integerrimo, non è più statuario e sicuro di sé come George Clooney ma che fa fatica, arranca e cade, a dimostrare, ancora una volta, che gli eroi possono fallire.

Un film bellissimo che non trova, ad oggi, pari in mezzo a quella lunga e prolifica serie di film usciti nel 2012 e schiaccia qualunque altro film sui supereroi a partire da quella vergognosa operazione commerciale chiamata The Amazing Spiderman fino al più apprezzabile e ben riuscito The Avengers, proprio perché non si tratta di un film di supereroi. Attendiamo ora The Man of Steel di Snyder che, scritto da Cristopher Nolan potrebbe essere un altro schiaffo alla cultura pop dei film tratti dai fumetti, ridimensionando un altro personaggio che, ormai, aveva nauseato da tempo.

Simone Falcone

I 10 Film per cui Vale la Pena di Guardare l’Inter in Europa League

10 MOTIVI PER LEGGERE “HO LE MIE 10 COSE”

  1. È la nuova rubrica di questo blog che da solo meriterebbe 10 elenchi da 10 per essere capito. E magari uno gli sarà anche dedicato;
  2. Saranno almeno 10 mesi che penso di scrivere qualcosa su questo blog e finalmente ho trovato un’idea che di sicuro piacerà ai miei 10 lettori (adoro le citazioni letterarie errate e le false modestie che si rivelano realtà);
  3. Saranno trattati gli argomenti più disparati, spesso i più disperati, ma spero che molti possano essere spunti per ravvivare il vostro interesse e portarvi a nuove esilaranti scoperte ignorando i miei consigli;
  4. La mia ispirazione è praticamente illimitata, tanto che al quarto punto della presentazione già ne sto usando uno per guadagnare tempo;
  5. Possiedo un’inventiva fuori dal comune, tanto da creare dal nulla un quinto punto che riesca a non dire nulla tanto quanto il quarto;
  6. Sciocchino/a;
  7. Come vedete, sono anche simpaticissimo e irriverente fino ai limiti del buon gusto;
  8. Arrivati a questo punto, vi meritate perfino un breve indice degli argomenti da cui si partirà:
    • Musica
    • Teatro
    • Cinema
    • Letteratura
    • Arte
    • Via Noto e dintorni
    • Politica
    • Sport
    • Gossip (per aumentare gli accessi, ma solo quello che riguarda i miei gatti);
  9. Se volete un assaggio di tutta questa meraviglia, leggete qui sotto le mie prime 10 cose.

I 10 FILM PER CUI VALE LA PENA DI GUARDARE L’INTER IN EUROPA LEAGUE

1. Il classico – 2001: Odissea nello spazio (di S. Kubrick, 1968 – 141’)

Scenografie clamorose, effetti speciali avanti di 30 anni, regista che non ha bisogno di presentazioni. Ritmo (artisticamente voluto, intendiamoci) paragonabile agli esordi del Milan post-Ibra, musica di Strauss per indicarci che siamo nello spazio, un inizio talmente bello da farci distrarre per il resto del film e un finale talmente boh da farci desiderare qualcosa che non si comprende.

Da guardare a rate in 10 intervalli delle partite dell’Inter, per apprezzarlo a pieno.

2. Il drammatico – Il discorso del re (di T. Hooper, 2010 – 114’)

Come si dice, osannato dalla critica, decine e decine di premi, ti siedi con le mani che tremano e le chiappe che sibilano, pronto ad essere investito da una vampata d’arte ustionante.

Le luci si riaccendono, ti alzi e con la massima naturalezza riesci a dire: “Carino, dai. Simpatico!”, completamente dimentico delle aspettative che ti hanno portato a donare 8 euro alla causa di una independent.

Conservare i soldi per andare in curva nord a fare le manette di Mourinho.

3. Il fantastico – Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo (di G. Verbinski, 2007 – 169’)

Hai trovato il primo una bella idea, hai avuto una prevedibile e quindi edulcorata delusione col secondo, sei in treno verso Roma e ti giunge l’idea di passare del tempo provando a guardarlo. Capisci presto che i tentacoli di Day Jones sono la parte più interessante dell’intera saga e passi tutto il film a fissarli ipnotizzato. Ed è meglio così.

Da conservare per quando si va a vedere Roma – Inter.

4. L’epico – Troy (di W. Petersen, 2004 – 163’)

Di questo kolossal rimembro i preadolescenti che parlavano, palpavano, ridevano, parolacciavano allegri dietro di me, l’aereo che passa in non so quale scena, i capelli di Brad Pitt che da grande attore riesce perfino a passare per un One Direction qualunque e poi… Ma ero poi andato a vederlo?

Da conservare per quando scade la tessera di Mediaset Premium.

5. Il western – Il grinta (di J. e E. Coen, 2010 – 110’)

Jeff Bridges torna con i fratelli Coen, l’omaggio a John Wayne, una bambina che alle prime scene si annuncia come l’ennesimo grande personaggio della saga dei fratellini. Per i primi minuti ci stai perfino credendo, di essere di fronte ad un’altra grande prova. Tutto il resto del film si trascina senza costrutto e la speranza si spegne lentamente come le energie del protagonista.

Potenziale senza resistenza, come nel precampionato.

6. Il fantascientifico – Sfera (di B. Levinson, 1998 – 134’)

Un cast più fantascientifico del titolo, un personaggio che muore inghiottito dalle meduse (bellissime) e intorno un film degno del filone catastrofico. Domande, alieni, Samuel L. Jackson.

Da vedere perché il pallone è rotondo.

7. Il bucolico – Una storia vera (di D. Lynch, 1999 – 112’)

Un haiku commovente.

Fratelli riuniti

Dalla morte

Su un tagliaerba

Letto? Piaciuto? Bene, dura quasi due ore. Buon divertimento.

In ricordo del gol di Stankovic da centrocampo. Inter-Schalke 2-5, 13-4-’11.

8. Il cartone – Madagascar (di E. Darnell e T. McGrath, 2005)

Prima o poi doveva succedere. Prima o poi il filone dei cartoni per grandi e piccini, con quella simpatia multilivello e quei personaggi trasversali doveva cadere.

Con Madagascar siamo riusciti a riunire tutti i livelli più bassi degli ultimi anni e a goderceli per ben tre film. Disegni mal fatti, battute scadenti, tormentoni degni del peggior Zelig.

Budget ben speso quanto quello dei primi 10 anni di Moratti.

9. La commedia – Una poltrona per due (di J. Landis, 1983 – 117’)

Più che altro perché l’avrete già visto per un numero di volte facilmente calcolabile:

andate nel cassetto delle candeline. Prendete la più recente che con certezza vi appartiene: la riconoscerete dalle caccole appiccicate sul bordo. Ricordate di contare in sistema decimale se sono candele singole, e di non scambiare le cifre se sono candelotti numerici. Ora se il vostro compleanno cade prima di Natale sottraete 1, altrimenti quello è il numero di volte.

In attesa che l’Europa League si giochi anche la sera della Vigilia.

10. Il gotico – Alice in Wonderland (di T. Burton, 2010 – 110’)

E badate che chi vi scrive ha prodotto una tesi di laurea sul buon Tim e il buon Danny, ma qui direi che il declino cominciato con La fabbrica di cioccolato si rende più esplicito che mai: musiche alla Carmina burina totalmente adattate alla moda del momento e totalmente lontane dalle geniali sinapsi di Elfman, personaggi messi lì solo per l’ego dei truccatori e dei modellatori 3d, un ciciarampa che quando compare ti fa subito venire in mente che magari ha segnato Djorkaeff, o Mazzola, e devi proprio andare a controllare.

Utile per rimpiangere i bei tempi andati. 

Filippo Donadoni

“La ragazza sul ponte”: una poesia visiva sulla Fortuna

<<Ora le racconto una storia. Tanto tempo fa, abitavo in una strada dalla parte dei numeri pari, al ventidue, e guardavo dalla finestra i numeri dispari, le case di fronte, perché credevo che la gente che ci viveva fosse più felice, che le stanze fossero più luminose, che le serate fossero più allegre. Ma le camere erano buie, le stanze più piccole, e i numeri dispari guardavano i numeri di fronte. Perché … pensiamo sempre che la fortuna sia ciò che non si ha.>> – Gabor.

“Quante volte mi chiamate, alzate la voce, vi arrabbiate, mi insultate, rimanete ad aspettarmi fino a notte, e ancora fino all’alba?
Quanti altari avete alzato per me, nei secoli, ditemi, di quante preghiere sono piene le mie orecchie?
E io. Io che dovrei sentirmi lusingata e correre da voi, da tutti voi. Siete così tanti …
Eppure, quanti corrono da me? Quanti mi vengono a cercare? Molti meno.
A volte, mi trovo proprio lì dove siete, vi basterebbe allungare le dita …
… come su quel ponte, quella sera: io c’ero.

Lei era una ragazza che credeva di non aver più nulla da perdere, se non un po’ di quota, per atterrare nell’acqua, giù dal ponte; lui, un lanciatore di coltelli spiantato e dimenticato dal mondo.
Due persone che, ognuna per sé, mi avevano cercata a lungo.

E io, io sono la Fortuna.”

Così li ha fatti incontrare, la dea bendata, su un ponte, col fumo che esce dalla bocca e il freddo dentro: Adèle, una Vanessa Paradis fatta apposta per la parte e Gabor, eccentrico lanciatore di coltelli che è valso un César al suo interprete, Daniel Auteuil.
Fuori dal tempo e dalla realtà, la Fortuna li ha messi insieme dietro la macchina da presa di Patrice Leconte, che con questo film (datato 1999) ritorna allo splendore delle sue origini.
L’audacia di un bianco e nero misterioso, di ombre e luci che giocano con gli occhi in una danza delicata da “neo-nouvelle vague” – del resto, non bisogna dimenticare che l’autore ha collaborato coi Cahiers du Cinéma, emblema della “nuova ondata”, a loro tempo.

L’indecisione, l’entusiasmo, la paura-desiderio e il viaggio corrono lungo tutta l’ora e mezzo della pellicola.

Lei, sognatrice disillusa, romantica libertina, che diviene bersaglio del lanciatore di coltelli e lui, che non sa come possa essere, ma quella ragazza gli ha portato un bagaglio di fortuna insperato.
E l’acqua, silenziosa quarta protagonista che, luce ed ombra, svela e cela, quasi come in un moderno “Atalante”.

Il dramma, la corsa, gli applausi frastornanti, la forza delle lame che sibilano verso il corpo di Adèle, perfino l’elegante erotismo che avvolge la protagonista, si stemperano in una delicatezza da sogno, da sospensione su una corda in levare, in un equilibrio di colori in bianco e nero, che riempiono di suggestione anche il mondo del circo, di natura policromo, che ci appare comunque sgargiante, misterioso, profumato di cipria e così brillante tra la polvere del teatro e dei ricordi di una donna che un tempo (vite precedenti?) aveva amato Gabor: “ ti ho cercato ovunque all’inizio, in ogni città […], per mesi ho fermato per strada uomini che ti assomigliavano, poi ho preso delle pillole, mi sono sposata, due volte … no, tre volte, ora non so.”
La vita “prima” è solo lasciata trapelare, in una foschia che ci mantiene alla giusta distanza dai protagonisti perché essi possano esaltare al meglio il loro fascino, un po’ come quel telo bianco, dalle morbide pieghe, che in un attimo iterato, tre, quattro, cinque volte lo stesso, con inquadrature differenti –un singhiozzo, una scarica di flash, copre il corpo di lei, sulle note del magistrale leitmotiv del film, “Who will take my dreams away”, firmato Marianne Faithfull.

Sospiri dietro il velo: di piacere, di sottile paura piena di desiderio.

E occhi, prima quelli di lei, subito in apertura, grandi e tristi, “lontani”, che colpiscono così tanto il lanciatore: “ ma la guardi, con due occhi e un culo simili, lei si butterebbe in acqua?”, chiede Gabor ad una comparsa. Poi quelli di lui, concentrati sotto sopracciglia aggrottate, seri, “terreni”.
Occhi sotto cui (per cui, grazie a cui) rinascere, sotto i quali danzare tra lame di polvere e sole e fra le altre, vere, affilate, in movenze quasi da amore carnale (surrogato di? Sublimazione di?). Certo perfetto per la protagonista, giovane ai limiti della ninfomania, che però non mostra mai apertamente desiderio fisico per il suo compagno di avventura, di un sogno reale che guarisce, purifica, migliora, trova perdendo per il mondo, tra la Francia e l’Italia, la Grecia e la Turchia.
Due elementi di una reazione chimica che chiama la Fortuna, così indagata e cercata lungo tutto il film: “ la fortuna, quella vera, l’ho vista passare, ma da lontano, quella degli altri, a me mancava sempre un pezzo.” E dopo questa confessione, Gabor unisce con un gioco di prestigio due metà di una banconota spezzata.
Come quella banconota, loro sono due metà che non possono che stare unite, come mostra la sfortuna che li coglie non appena si separano; e i dialoghi, botta e risposta, discorsi a distanza che volano sopra la gente e arrivano al destinatario, in un altro posto, tra altri muri, tra altri odori.
E quel ritrovarsi alla fine, questa volta a parti invertite, lui quasi giù da un ponte, e lei che passava di lì; il darsi del “tu”, solo ora, per la prima volta; quell’abbraccio vero, fisico, il primo così reale, di nuovo ripetuto –tre, quattro, cinque volte, braccia e viso nell’incavo del collo, e forse quel profumo che solo dopo essersi persi, ci si accorge di quanto fosse mancato …
Braccia, e viso nell’incavo del collo, tre, quattro, cinque volte allo stesso modo. Un singhiozzo, una scarica di flash.

“Io sono qui, su questo ponte, vicino a voi, vi basterebbe allungare le dita”. Dice la Fortuna.

E l’acqua sotto. L’acqua che guarda, testimone silenziosa, sempre uguale, sempre “la stessa”. L’acqua che scorre e tutto vede, e sempre racconterà.

Letizia Chiodini

I love my brother!

Quando sei un drogato di lettura e nella descrizione in quarta di copertina di un libro leggi <<Un racconto allucinato, “stratosferico”, caratterizzato da una prosa sontuosa e musicale […]>>, non puoi non comprarlo. Davvero, è un impulso fisico, una necessità impellente: quel libro DEVI leggerlo.

Strategie di marketing. Certo.

Poi mentre leggevo “La casa dell’incesto” di Anais Nin (titolo originale: “The house of incest”) ho cercato di trovare altri aggettivi, altri modi per definire questo piccola prosa lirica della Nin; davvero, ci ho provato, ma “allucinato” è l’aggettivo che meglio descrive questo testo.

Ma andiamo con ordine: “La casa dell’incesto” è un libercolo di circa una settantina di pagine con testo a fronte in inglese; si tratta quindi di un testo piuttosto breve, gestito con una sapienza magistrale dall’autrice che in queste poche pagine condensa le ossessioni della protagonista, una giovane donna che prima ama Sabina e poi il fratello.

In realtà è appunto l’allucinazione che la fa da padrona. Per non perdermi in chiacchiere vi riporterò una citazione perché non c’è altro modo di comprendere quando sia particolare lo stile della Nin (n.d.a.: personalmente consiglio la lettura dei brani in lingua, per meglio assaporare la musicalità delle parole.)

“I will let you carry me into the fecundity of destruction. I choose a body then, a face, a voice. I become you. And you become me. Silence the sensational course of you body and you will see in me, intact, your ouw fears, you own pities. You will see love which was excluded from the passions given you, and I will see the passions excluded from love. Step out of your role and rest yourself on the core of your true desires. Cease for a moment you violent deviations. Relinquish the furious indomitable strain. I will take them up.”

“Lascerò che tu mi porti nella fecondità della distruzione. Scelsi un corpo allora, un viso, una voce. Io divento te. E tu diventi me. Metti a tacere lo straordinario corso del tuo corpo e potrai vedere in me, intatte, le tue paure, le tue pene. Potrai vedere l’amore che era stato escluso dalle passioni che destava e io potrò vedere le passioni escluse dall’amore. Distaccati dalla tua immagine e riposati nel centro dei tuoi veri desideri. Interrompi per un attimo il tuo deviare violento. Allenta la furiosa indomabile tensione. Prenderò tutto su di me.”

Non è sinceramente possibile tracciare una trama coerente, perché non esiste coerenza, ma solo una allucinazione che ne segue un’altra e precede quella successiva; ogni allucinazione è perfetta, a suo modo, ogni parola, anche se non sembra, è studiata in maniera quasi compulsiva perché non stoni accostata alle altre.

Questo libro è un inno alla melodia delle parole che si risolvono in una coralità portata allo stremo, come estremo è l’urlo che strazierà la protagonista di queste poche pagine: “I LOVE MY BROTHER!”.

Ci disturba, ci infastidisce, persino potrebbe essere odioso questo bruciante amore incestuoso, poi scorriamo indietro di qualche pagina e ricordiamo che la nostra (anti) eroina è innamorata di Sabina, la ama e le dice: “ When I saw you, Sabina, I chose my body.” Lei ha scelto il suo corpo per Sabina.

Giunti alla fine di questa breve avventura siamo scombussolati, la Nin ci ha messi a soqquadro e forse è questo che ci piacerà di lei. Personalmente, penso sia un libro sconvolgente nel senso migliore.

Certo Anais Nin non ha bisogno della mia approvazione (come del resto nessuno degli autori di cui ho parlato in precedenza), ma ho amato profondamente questo testo così pervaso da un ego fragile ma deciso.

D’altronde siamo qui per raccontarci i nostri gusti, non per dare giudizi.

“The too clear pain of love divided, love divided…”.

Serena Marchesi

Editoriale – Talento Illuminato

“Ognuno dovrebbe imparare a scoprire e a tener d’occhio quel barlume di luce che gli guizza dentro la mente più che lo scintillio del firmamento dei bardi e dei sapienti.” – Ralph Waldo Emerson

Citando queste parole (da Fiducia in sé stessi, 1841) è quasi certo che si finisce col fare un tremendo errore d’interpretazione formale, giacché in esse si richiede proprio di evitare qualsiasi tipo di riferimento generalizzato ad un’esperienza altra e piuttosto di ricercare una propria individualità artistica. Ma infondo è proprio questo il punto. E’ davvero giusto così? Ha un senso prescindere dagli insegnamenti del passato? Siamo a questo punto disposti a constatare che la verità (come spesso accade) sta esattamente nel mezzo. Non a caso la preparazione di qualsiasi professionalità d’ambito artistico si fonda sull’analisi dell’opera precedente, in una prospettiva storiografica intensa e perfettamente strutturata. Perché non se ne può fare a meno. Sarebbe incauto il contrario. Presuntuoso. Insomma, per niente costruttivo. Lo sa bene, ad esempio, il personaggio che andiamo oggi ad approfondire: interprete di formazione classica che, come molti, deve tutto all’influenza estetica del Bardo per eccellenza.

Auguri all’attore statunitense Jesse Eisenberg (29), all’attore statunitense Sean William Scott (36), all’attrice britannica Kate Winslet (37), all’attrice canadese Neve Campbell (39), all’attore statunitense Zach Galifianakis (43), all’attore australiano Guy Pearce (47), all’attore britannico Clive Owen (48), all’attrice statunitense Elisabeth Shue (49), all’attore austriaco Christoph Waltz (56), all’attrice spagnola Angela Molina (57), al regista/sceneggiatore italiano Marco Tullio Giordana (62), all’attrice/produttrice statunitense Susan Sarandon (66), al regista francese Jean-Jacques Annaud (69), all’attrice, scrittrice e cantante britannica Julie Andrews (77).

Abbiamo già accennato in apertura all’attore/sceneggiatore/regista statunitense Liev Schreiber (45 anni giovedì). Figlio di un attore e una pittrice di variegate origini europee, Liev ha studiato presso diverse accademie drammatiche in patria e in Gran Bretagna conseguendo diplomi, lauree ma soprattutto grande successo come attore nonostante le ambizioni autoriali. Debutta al cinema nel 1994 ma la prima partecipazione di rilievo è registrata solo un paio d’anni più tardi con “Big Night”(1996) dell’amico Stanley Tucci. In questo periodo, tra le altre cose, viene scritturato per un ruolo di rilievo nella saga “Scream”(1996–1997–2000) di Wes Craven, partecipa a “Sfera”(1998) di Barry Levinson, affianca Robin Williams in “Jakob il bugiardo”(1999) e viene nominato agli Emmy e ai Golden Globes per aver indossato i panni di Orson Welles nel televisivo “RKO 281”(1999). Giungono poi a ondate le conferme di una carriera forse non sempre esaltante ma comunque interesse: “Kate & Leopold”(2002) di James Mangold esce in contemporanea all’affermazione teatrale del Nostro, “The Manchurian Candidate”(2004) di Johnatan Demme gli regala un ruolo ambiguo e indimenticabile, mentre “Il velo dipinto”(2007) di John Curran lo porta al felice matrimonio con la collega Naomi Watts. Ricordiamo poi “Defiance – I giorni del coraggio”(2008) di Edward Zwick, “X-Men le origini – Wolverine”(2009), “Motel Woodstock”(2009) di Ang Lee e il sottovalutato sci-fi “Repo Men”(2010). Qualche settimana fa lo abbiamo visto passare alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, e non si può quindi dire che si stia annoiando. Definito il più grande interprete shakespeariano della sua generazione, egli pare però non aver rinunciato a determinati sogni giacché di recente ha diretto il suo primo (e fin’ora unico) film: “Ogni cosa è illuminata”(2005), nel quale non appare personalmente ma piuttosto dimostra un notevole talento narrativo.

Alessandro Amato

Bentornato, Spider-Man!

TITOLO: “The Amazing Spider-Man”

REGIA: Marc Webb

GENERE: Azione – Fantasy

DURATA: 136 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Mercoledì 4 luglio 2012

E’ arrivato nelle sale italiane “The Amazing Spider-Man”, diretto da Marc Webb, ultimo adattamento cinematografico delle avventure del celebre supereroe Marvel.
Che dire di questo film? Una sola e semplice cosa: finalmente, dopo anni di attese e delusioni, abbiamo avuto ciò che attendevamo da sempre, un film su Spider-man con Spider-man protagonista! Nel senso che il personaggio ( differenziandosi dalla trilogia diretta da Sam Raimi tra il 2002 e il 2007) viene rappresentato sullo schermo così come è nel fumetto, senza inutili stravolgimenti.

In questa avventura lo studente liceale Peter Parker ( interpretato da un ottimo Andrew Garfield) abbandonato dai genitori quando era solo un bambino e affidato alle cure degli zii Ben e May, intraprenderà un’indagine personale nel tentativo di scoprire la verità sulla scomparsa del padre e della madre, cosa che lo porterà ad acquisire degli stupefacenti superpoteri. Durante le sue ricerche si imbatterà anche nel dottor Curt Connors (un eccellente Rhys Ifans), ex-collega del padre, che diventerà ben presto il terribile Lizard, suo temibile nemico. In mezzo a tutto questo ci sarà tempo anche per l’amore, incarnato nella splendida Gwen Stacy (Emma Stone), ragazza splendida e dotata di grande intelligenza e carattere.

I pregi di questi film sono molteplici, a partire dall’eccellente lavoro di tutti gli attori, da Garfield, che dona infine una grande dignità al personaggio di Peter, a Ifans, capace di tratteggiare un cattivo mai banale ed estremamente fragile, con cui è facile entrare in sintonia; senza contare l’eccellente Martin Sheen nei panni di Zio Ben, figura fondamentale dell’universo di Spidey.
La regia di Webb è ottima, studiata nei minimi dettagli, capace di adattarsi alle più frenetiche scene d’azione sia a quelle più dense di emozioni. Sceneggiatura ben costruita e colonna sonora accattivante completano infine il tutto.

In conclusione possiamo quindi dire che questo è davvero il film che ogni fan di Spider-Man stava aspettando, e che nonostante non sia esente da difetti, vale assolutamente il prezzo del biglietto, e assicura tanta emozione e divertimento.

Giacomo Buzzoni