Archivi del giorno: aprile 8, 2012

La religione dell’attore

“Che cos’è, per te, essere attore?”
“Correre per raggiungere la linea dell’orizzonte”.
Riszard Cieslak.

Quanto può essere difficile interpretare una parte? Essere attore: prove in un teatro che profuma di legno e polvere, copione, sipario, musiche, luci, luci …
E c’era, la luce, quel giorno in cui Rena Mirecka intraprese il viaggio verso una casa in mezzo alla foresta, coi compagni del Teatro Laboratorio. Aveva appena finito di piovere, l’aria sapeva di terra e il sole filtrava tra i rami gocciolanti. Si disse che quella luce l’avrebbe guidata, avrebbe condotto tutti sulla strada giusta.
Rena era un’attrice e Jerzy Grotowski il suo insegnante.
Lei non era l’unica a sentire la poesia, la tensione dell’attimo che giunge all’ispirazione. Essere attori è fatica, è corpo, è ricordo. Non è testo, né scenografia. Il teatro è “povero”, come il maestro lo intitolò in un suo trattato; è incontro, “ la vicinanza dell’organismo vivo: ecco il solo elemento di cui il teatro non può essere defraudato.” Esso è esperienza di vita che va oltre l’estetica, è un lavoro su di sé, una dialettica spirituale tra “chi fa” e “chi osserva”.
Pensate ad un sacerdote che parla ai suoi fedeli, l’estasi della cerimonia, l’invocazione di ciò che esiste in ogni uomo e che egli nasconde, lì davanti agli occhi dell’adepto.
Il Rito.

Come può non essere tale, l’inizio del capolavoro di Grotowski, Il Principe Costante, di Calderòn de la Barca e riscritto dall’autore polacco, Slowacki?
La storia narra di un principe portoghese, Don Fernando, che preferisce morire piuttosto che vedere l’isola di Ceuta, emblema della cristianità, cadere nelle mani dei Mori musulmani. Don Enrico, suo fratello, ha concordato che proprio la conversione dell’isola sia il pegno da pagare per la vita del giovane.
Il Principe è costante nella propria fede, ma il contrasto storico- religioso non sembra importare poi granché al regista, che intende mettere in evidenza il quadro sociale di violenza e sopraffazione che soffocano l’individuo rimasto solo. Anche la scena di Grotowski è divisa in due, ma non troviamo da un lato i cristiani e dall’altro gli islamici: ci sono coloro che sono pronti a farsi assimilare, di non importa quale fede, scissi al loro interno da tensioni sentimentali, e il protagonista, nella solitudine di chi ha scelto una via spirituale irrevocabile.
La scena, il Rito con cui si apre la Funzione, non è presente nel testo originale.

Gli spettatori sono entrati in sala, vengono ripartiti sui tre lati di una palizzata rettangolare, solo le loro teste sporgono dall’alto e i loro occhi stupiti guardano giù, verso quella pedana in legno – tavola operatoria, o altare sacrificale- all’interno di un’area che è arena.
Lo Schiavo è in scena, bianco tra i neri, trascinato verso la pedana. Torture delicate, quasi invisibili sul suo corpo seminudo, che richiama esplicitamente alla memoria la “Lezione di anatomia del dottor Tulp”, di Rembrandt. Impercettibili carezze che lo fanno sussultare e contorcere, fino al culmine di quel lungo bacio sulle labbra, datogli dal generale Muley, in una sensualità che, come sottolinea il teorico Roberto Alonge, è violenza, stupro. Tra le otto braccia che impongono “l’orribile potere dispotico” sull’indifeso, ci sono anche quelle di Fenice, che castra il prigioniero. Non sono questi gesti celati a colpire più di tutto lo spettatore allibito, ma quello subito precedente, compiuto dal re, che alzando la mano chiusa a pugno ne decreta l’esecuzione, e quello immediatamente successivo, che vede Tarudante agguantare brutalmente l’uomo per le gambe, spogliarlo e rivestirlo con l’abito nero che anch’egli indossa. Lo Schiavo è ora assimilato alla società dominante, fagocitato dalla maggioranza, privato – attraverso l’atto della castrazione- della sua individualità. Non a caso, l’attore che interpreta questa parte, sarà lo stesso a rappresentare Don Enrico che, mentre per Calderòn si trova in una situazione di necessità (vendere un ideale per salvare il fratello), qui rappresenta l’emblema della corruzione sociale. Questa sequenza proemiale è fondamentale per capire il seguito: il successivo ingresso, di Don Fernando, si connoterà come quello di un Secondo Prigioniero. Grotowski raddoppia, per valorizzare al massimo la variante personale del Principe: lo Schiavo cede e si integra, il Principe, no. Egli è costante. L’essenza di questo spettacolo, basato su un copione ridotto, sulla forza del corpo e dei gesti, è l’affinamento, fino alla “luminosità”, della ricerca sul corpo dell’attore protagonista, Ryszard Cieslak, il più celebre degli artisti del maestro.
Fu lunga e operosa la preparazione di questo spettacolo, che andò in scena nel 1965 in Polonia, terra del maestro e degli interpreti, e luogo di nascita del Teatro Laboratorio.
Grotowski aveva un rapporto molto stretto con i suoi attori: “Il testo parla di torture, di dolori, di un’agonia. Il testo parla di un martire che rifiuta di sottomettersi a leggi che egli non accetta. […] Ma nel mio lavoro di regista con Ryszard Cieslak, non abbiamo mai toccato niente che fosse triste. Tutta la parte è stata fondata su un tempo molto preciso della sua memoria personale legata al periodo in cui era un adolescente ed ebbe la grande esperienza amorosa. Tutto era legato a quell’ esperienza. Essa si riferiva a quel tipo di amore che, come può succedere solo nell’ adolescenza, porta tutta la sua sensualità, tutto quello che è carnale, ma, nello stesso tempo, dietro a questo, qualcosa di totalmente differente che non è carnale, o che è carnale in un altro modo, e che è molto più come una preghiera. È come se, tra questi due aspetti, si creasse un ponte che è una preghiera carnale.”

Rena cercava la strada che potesse essere un cammino per tutti loro: da ciò capiamo anche la potente unione tra gli attori, e tra essi e il loro lavoro. Un’assistente del regista, Stefania Gardecka, raccontò di come Cieslak si infuriò alla scoperta di un berretto rosso, rovinato da lei per sbaglio su una lampada: disse che aveva bruciato il sudore e la fatica del loro apprendimento.
Una “religione”, dunque, con le sue “reliquie”, un teatro per cui “immolarsi”. La stessa donna ricordò l’atmosfera sacra di silenzio, il giorno in cui, morto Riszard, ne portarono le ceneri in teatro. Le appoggiarono sul drappo rosso usato nel “Principe Costante”. Un Rito, quindi, per qualcuno che a quel teatro aveva dato più del solo corpo. Disse Grotowski: “ a lui ( a Cieslak) ho domandato tutto, un coraggio in un certo modo inumano […]Abbiamo solo lavorato lentamente.” Insieme, con la fiducia reciproca. E dopo “ non aveva paura, e si è visto che tutto era possibile perché non c’era paura”.

Letizia Chiodini