L’amore incondizionato verso i figli. L’impotenza di non poter salvare chi si ama di più al mondo. Di conseguenza, la rabbia e il dolore. Questo mi viene in mente quando guardo il “Laocoonte” (I secolo d.C., scultura in marmo, Musei Vaticani).
« Questa è macchina contro le nostre mura innalzata,
e spierà le case, e sulla città graverà:
un inganno v’è certo. Non vi fidate, Troiani.
Sia ciò che vuole, temo i Dànai, e piú quand’offrono doni. »
(Commento di Laocoonte di fronte ai Troiani; Publio Virgilio Marone, Eneide, libro II, versi 46-49)
Il gruppo statuario mostra il momento finale di una lunga vicenda: Laocoonte è un veggente abitante di Troia e diventa protagonista nel momento in cui nella città entra il famoso cavallo usato per ingannare i troiani. Egli si oppone alla decisione di far entrare il cavallo in città e per questo motivo Atena, o secondo un’altra versione Poseidone, invia Porcete e Caribea, due enormi serpenti marini che stritolano i suoi figli e lui stesso, nel momento in cui accorre per salvarli. Al centro spicca il corpo di Laocoonte con i muscoli in tensione nel tentativo di liberarsi dai mostri, il busto si inarca in modo esagerato, evidenziando lo sforzo, e il movimento è continuato dalla testa che si appoggia sulla spalla sinistra; sul suo volta regna già la desolazione poiché percepisce la bocca del serpente che sta per morderlo al fianco e sa che sarà la fine, sua e, inevitabilmente, anche dei figli. Dei due ragazzini quello di destra appare essere nella situazione più difficile, completamente avvolto dalle spire del mostro, non sembra trovare una via di fuga, al contrario del fratello maggiore il quale sta per liberarsi la caviglia e può avere una speranza di salvezza.
Ciò che colpisce quando ci si trova davanti alla statua è la capacità dell’artista che è riuscito a esprimere il dolore di un uomo in maniera così dignitosa, un padre distrutto che in qualche modo riesce ancora a trasmettere fierezza.
Proprio questa posatezza viene presa come esempio da Lessing, filosofo tedesco che tratta di estetica e ritenuto un importante esponente dell’Illuminismo settecentesco, che scrive un’opera intitolata Del Laocoonte nel 1766, nella quale confronta i mezzi delle arti figurative e di quelle letterarie. Egli ritiene che dal punto di vista estetico (dove per estetica si intende la branca della filosofia che studia l’arte e le sue manifestazioni) tra i due ambiti c’è una netta differenza. Lessing sostiene che, nel momento in cui leggiamo il passo in cui Virgilio ci descrive la sorte di Laocoonte, noi riusciamo a oltrepassare l’immagine che arriva alla mente di quest’uomo che spalanca la bocca per il dolore, in quanto lo conosciamo già come patriota e padre amorevole e come tale suscita in noi un sentimento di affetto e riconduciamo il suo grido all’insopportabile pena che sta patendo. Quando si parla di scultura o pittura, però, ciò che conta è ovviamente l’immagine e per questo l’espressione del dolore fisico deve sottostare a una precisa misura, la quale scaturisce dalle esigenze di ogni singola forma d’arte. Secondo Lessing, per quanto riguarda le arti visive, il loro oggetto è la bellezza visibile nella sua perfetta proporzione e regolarità, mentre il fulcro della poesia sarà l’espressione in cui potranno rientrare l’imperfezione e la bruttezza.
Nella plastica lo scultore è obbligato a rappresentare un’azione congelata in un istante, eliminando lo scorrere del tempo, e per questo deve limitare la presenza del brutto e del raccapricciante, mentre, al contrario, la poesia che rappresenta azioni che si svolgono in un lasso di tempo può inserire il brutto che, mai fine a se stesso, deve contribuire allo scopo artistico.
Ora il mio consiglio è solo quello di godersi lo spettacolo di un’opera che riesce a rapire l’immaginazione e i sentimenti. Certo non sono molto imparziale…ma chi di noi lo è quando parla di qualcosa che ama?
Cristina Cattaneo