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Ted (Non preoccupatevi, non è un’altra inutile pagina di Facebook)

TITOLO: “Ted”

REGIA: Set McFarlane

GENERE: Commedia

DURATA: 1o6 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Giovedì 4 ottobre 2012

Ted è un film che ha già nauseato chi frequenta abitualmente il web e Facebook.

Che un orsetto di peluche, animato grazie ad un desiderio natalizio, fumasse il bong lo si sapeva già da mesi e da fastidio un pubblico che va al cinema sapendo già di cosa ridere.

Mi spiego meglio. Domenica sera, in centro a Milano, al cinema Odeon, l’orsacchiotto di Set MacFarlane si è esibito davanti ad una sala quasi piena a poco meno di tre settimane dalla sua uscita nelle sale italiane. Si tratta evidentemente di un fenomeno in cui molti vogliano mettere la propria firma, dire “c’ero anche io” per poter ridere alle sue battute e citarle nelle prossime settimane sui social network. Ecco perché Ted, un film dal concept geniale, non ha il pubblico che si merita.

Tralasciando gli imbarazzanti applausi, estremamente fastidiosi, in sala ad ogni battuta del film (neanche fosse la prima di Frankenstein Jr.), sono rimasto basito da un elevato numero di persone che, bene educate e indottrinate da trailer e spoiler continui, sapevano già quando ridere e quando sarebbe arrivata quella precisa battuta che avevano letto s quel post. La triste verità è che la vera comicità di MacFarlane, quella fatta di non-sense e ripetizioni quasi ossessive, è stata colta da pochi e le battute migliori sono passate tristemente silenziose (a parte il sottoscritto che rideva da solo nel buio della sala), immeritatamente in sordina rispetto alle parti più grossolane e pubblicizzate. La canzoncina del temporale fa ridere ma molto più divertente è la descrizione tagliente e “piazzata lì” delle capacità attoriali di Sam J. Jones nel pluricitato Flash Gordon (1980). Fa ridere il teddy bear coccoloso e un po’ sgualcito strafatto di erba che dice parolacce, ma in pochi, a parere di chi scrive, sono stati in grado di apprezzare in pieno un film che merita una lettura decisamente meno volgare e superficiale di quella che gli viene dedicata.

Se il pubblico in sala prende un’ insufficienza grave (ma il pubblico cinematografico di Milano raramente andrebbe promosso), il film passa con buoni voti.

Come già detto, l’idea di base è eccezionale e segna un buon passo avanti nella rilettura sempre più televisiva e fumettistica del cinema. Il creatore de I Griffin ne approfitta per inserire una buona dose di cattiveria e di irriverenza, senza paura di estrarre dal cappello dell’immaginazione battute a carattere sessuale delle più esplicite e una rilettura coraggiosa della tipica favola di Natale che porta, nelle locandine, l’orsacchiotto Ted ad autocensurarsi.

Apprezzabile il lavoro registico che raggiunge il proprio apice nella sequenza in cui, dopo aver sniffato cocaina (altro tema difficile che MacFarlane tratta con una leggerezza quasi preadolescenziale), l’orsacchiotto e il protagonista Mark Wahlberg decidono di aprire un bar. Lì la cinepresa è in grado di seguire i pensieri confusi e allucinate dei due protagonisti, disegnandone il ritmo e la confusione.

Bravi i due principali attori umani: il già citato Mark Wahlberg e Mila Kunis che formano una coppia credibile e ben assortita, nella trama così come nell’intesa in fase di ripresa.

Un altro articolo dedicato meriterebbe l’effetto speciale che da vita a Ted sullo schermo. Set MacFarlane ha utilizzato una tecnologia molto simile a quella impiegata da Peter Jackson sul set de Il Signore degli Anelli per realizzare Gollum. La differenza sta nella possibilità, per MacFarlane (regista e protagonista del film) di poter indossare la tuta davanti alla telecamera interagendo fin da subito come orsacchiotto di peluche con gli attori in carne ed ossa, mentre Andy Serkis (Gollum), pur recitando fin da subito, doveva fare ulteriori riprese da solo per potersi trasformare nella creatura descritta da Tolkien. Questo sistema offre una possibilità di variare e improvvisare illimitata ed una naturalezza sullo schermo che deriva proprio dall’interazione massima tra digitale e umano.

Bel film, si ride molto e si rimane sorpresi da una violenza da cartone animato che non si limita nemmeno di fronte al picchiare bambini. Unica pecca: il finale. Non si anticipa nulla in questo articolo, ma bisogna sottolineare come il film perda tanti punti a causa del suo stesso epilogo. Iniziata con un bambino ebreo picchiato per le festività, la pellicola perde in cattiveria man mano che avanzano i minuti fino a giungere ad una conclusione buonista che tradisce lo spirito iniziale e che risulta dolciastra ed indigesta. Certo, fanno ridere le scritte in coda alla Animal House, ma ci sarebbe da chiedersi quanto la produzione abbia influito sulla stesura del testo o preoccuparsi per una inspiegabile sconfitta della parodia e della cattiveria da parte di MacFarlane che, in ogni caso, sorprende in negativo proprio all’ultimo, dopo una prestazione decisamente meritevole.

Simone Falcone

Il Ritorno del Cavaliere Oscuro – Le Scelte Difficili di Nolan

TITOLO: “The Dark Knight Rises”

REGIA: Christopher Nolan

GENERE: Azione – Drammatico

DURATA: 165 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Mercoledì 29 agosto 2012

Parliamo dell’ultima opera di Cristopher Nolan.

Parliamo di un film montato ed atteso per più di un anno e che, al suo debutto nelle sale, non delude le aspettative.

Numerose le critiche. Si accusa, innanzitutto, il regista britannico di magniloquenza e di aver richiesto troppo da un solo film.

Eppure, in questo capitolo, Nolan ha fatto scelte incontestabilmente pericolose quali mettere come avversario del cavaliere oscuro uno dei nemici più sconosciuti dell’universo DC: Bane, e di inserire in un film che aveva già detto di no al pop gotico di Burton e al pop punk di Schumacher, uno dei personaggi più pop di Batman, un personaggio, Catwoman, di cui, oltretutto, tutti noi nutriamo pessimi ricordi dopo l’interpretazione quasi pornografica e, incredibilmente, viste le premesse, sterile di Halle Berry.

Nolan, poi, non contento di tutto ciò, assegna la parte di Catwoman (che poi Catwoman non è, nel film) ad una delle interpreti femminili più in ombra di Hollywood. Se, infatti, in un’indagine per le vie di Milano avessimo chiesto di Anne Hathaway nessuno, prima di The Dark Knight Rises avrebbe saputo dirci alcun suo titolo, se escludiamo Il Diavolo Veste Prada in cui, comunque, l’interpretazione dell’attrice passa in secondo piano rispetto a quella magistrale, che nulla ha a che vedere con l’immeritato Oscar in Iron Lady, di Maryl Streep. Questo non perché non abbia fatto altri film che hanno goduto di discreto successo, ma perché l’attrice si è sempre persa nel panorama delle belle ragazze da commediola romantica senza mai lasciare l’impronta della propria presenza. Ma la Hathaway si dimostra straordinaria firmando, forse, il film della carriera. Sexy, sgamata, pungente e ancora sexy, l’attrice recita la parte di una ladra disincantata, dal passato turbolento, che riuscirà a raggirare Bruce Wayne/Christian Bale in più di un’occasione, sempre con enorme charme e classe, esibendosi in pose ginniche che hanno dell’incredibile e in battute scritte alla perfezione per un personaggio scrittole addosso che non ha niente da spartire con la Catwoman dei cartoni animati.

Ma un film come Il Ritorno del Cavaliere Oscuro, un film di una portata epica che ricorda molto i vecchi kolossal biblici, non può reggersi solo sui buoni. Ed ecco, allora, che i fratelli Nolan chiamano in causa il peggiore dei cattivi. Alcuni tra i più appassionati ricorderanno Bane nel fallimentare  Batman e Robin dove Schumacher si era divertito a ridicolizzare un personaggio tra i più complicati dei fumetti degli anni ’90, disegnandolo come un grosso patetico drogato privo di capacita cerebrali e cognitive. Il regista, invece, lo trasforma in un avversario che non ci fa rimpiangere il Joker, comunque insuperabile, di Heat Ledger. Lasciando da parte le futili ed alquanto tristi critiche dei putristi del fumetto per i quali non esisterà mai un film adatto a riportare sullo schermo degli eroi e dei miti che, forse, avrebbero dovuto abbandonare dopo i tredici anni, questo Bane merita un’attenzione speciale. È vero, il Bane disegnato da Graham Nolan è un sudamericano strapompato grazie ad una droga sperimentale chiamata Venom (da non confondersi con il Venom nemesi di Spiderman), mentre quello del film è un uomo molto forte, addestrato per anni, senza cavetti attaccati sulla schiena e maschere da lottatore di Wrestling anni ’90, che viene imprigionato da qualche parte in un deserto mediorientale e non fugge dal suo carcere fingendosi morto come fece Edmond Dantes, ma saltando su delle rocce per risalire un pozzo che non ricorda assolutamente la prigione di Santa Prisca ideata dagli sceneggiatori Chuck Dixon e Doug Moench. Ma Cristopher Nolan non ha rivoluzionato Batman abbandonandosi alla facile imitazione delle omonime strisce.

L’attore scelto e Tom Hardy che sfoggia una muscolatura quasi fumettistica in parte ereditata dall’eccezionale Warrior (2011) che si ritrova, costretto dentro una maschera che ricorda il muso di un babbuino, a dover recitare con gli occhi. Una sfida ampiamente vinta grazie a sguardi intensi e significativi, degni di un grande attore, supportati da una gestualità complicata e studiata ricca di atteggiamenti e pose, come l’afferrarsi la giacca con entrambe le mani, che rendono il personaggio assolutamente unico. Una delle migliori nemesi della cinematografia degli ultimi anni.

Il resto del cast non ha bisogno di presentazioni o di troppe parole e si conferma straordinario come nei primi due film della saga di Batman e in The Prestige, nel caso di Christian Bale e di Michael Kane.

Michael Kane è fantastico nel ruolo del maggiordomo Alfred che, pur sparendo per una buona metà del film, farà pesare come macigni i propri minuti di presenza confermandosi perfetto nel suo ruolo, scatenando nel disagiato Bruce Wayne una serie di sentimenti contrastanti che porteranno a delle scelte molto sofferte.

Gary Oldman arrabbiato che urla le propria morale tradita in un quasi primissimo piano, vale il prezzo del biglietto. Il commissario di polizia di Gotham City stupisce per le proprie scelte e per l’intensità impressa sullo schermo di un eroe di guerra che si sente spaesato in un momento di pace.

Bale è il miglior Batman di sempre e lo urla per tutto il film, lo afferma e lo conferma in una prova ancor più difficile delle precedenti.

Morgan Freeman è calato sempre meglio nei panni di un Lucius Fox che non ha paura di scottarsi, irriverente e dimentico, come sempre, dei propri anni.

Infine, Joseph Gordon-Levitt nel ruolo di un giovane poliziotto orfano che sembra aver già capito tutto, è desideroso di confermarsi in un ruolo ancor più lungo e complicato rispetto a quello riservato per lui in Inception e, a tratti, ce la fa, distinguendosi in mezzo ad un esercito di stelle già più affermate e amate dal pubblico.

Quella di Cristopher Nolan è stata una prova coraggiosa, dalle prime battute del film fino all’inizio dei titoli di coda. Il giovane regista conferma ancora una volta di poter diventare uno dei migliori nel panorama Hollywoodiano, rifiutando il più possibile il digitale e compiendo scelte difficili e rischiose sia nella sceneggiatura che in fase di ripresa e montaggio.  Il film è la conclusione perfetta e bilanciata per la saga non di Batman ma di Bruce Wayne, un Bruce Wayne che non è più integerrimo, non è più statuario e sicuro di sé come George Clooney ma che fa fatica, arranca e cade, a dimostrare, ancora una volta, che gli eroi possono fallire.

Un film bellissimo che non trova, ad oggi, pari in mezzo a quella lunga e prolifica serie di film usciti nel 2012 e schiaccia qualunque altro film sui supereroi a partire da quella vergognosa operazione commerciale chiamata The Amazing Spiderman fino al più apprezzabile e ben riuscito The Avengers, proprio perché non si tratta di un film di supereroi. Attendiamo ora The Man of Steel di Snyder che, scritto da Cristopher Nolan potrebbe essere un altro schiaffo alla cultura pop dei film tratti dai fumetti, ridimensionando un altro personaggio che, ormai, aveva nauseato da tempo.

Simone Falcone

“La ragazza sul ponte”: una poesia visiva sulla Fortuna

<<Ora le racconto una storia. Tanto tempo fa, abitavo in una strada dalla parte dei numeri pari, al ventidue, e guardavo dalla finestra i numeri dispari, le case di fronte, perché credevo che la gente che ci viveva fosse più felice, che le stanze fossero più luminose, che le serate fossero più allegre. Ma le camere erano buie, le stanze più piccole, e i numeri dispari guardavano i numeri di fronte. Perché … pensiamo sempre che la fortuna sia ciò che non si ha.>> – Gabor.

“Quante volte mi chiamate, alzate la voce, vi arrabbiate, mi insultate, rimanete ad aspettarmi fino a notte, e ancora fino all’alba?
Quanti altari avete alzato per me, nei secoli, ditemi, di quante preghiere sono piene le mie orecchie?
E io. Io che dovrei sentirmi lusingata e correre da voi, da tutti voi. Siete così tanti …
Eppure, quanti corrono da me? Quanti mi vengono a cercare? Molti meno.
A volte, mi trovo proprio lì dove siete, vi basterebbe allungare le dita …
… come su quel ponte, quella sera: io c’ero.

Lei era una ragazza che credeva di non aver più nulla da perdere, se non un po’ di quota, per atterrare nell’acqua, giù dal ponte; lui, un lanciatore di coltelli spiantato e dimenticato dal mondo.
Due persone che, ognuna per sé, mi avevano cercata a lungo.

E io, io sono la Fortuna.”

Così li ha fatti incontrare, la dea bendata, su un ponte, col fumo che esce dalla bocca e il freddo dentro: Adèle, una Vanessa Paradis fatta apposta per la parte e Gabor, eccentrico lanciatore di coltelli che è valso un César al suo interprete, Daniel Auteuil.
Fuori dal tempo e dalla realtà, la Fortuna li ha messi insieme dietro la macchina da presa di Patrice Leconte, che con questo film (datato 1999) ritorna allo splendore delle sue origini.
L’audacia di un bianco e nero misterioso, di ombre e luci che giocano con gli occhi in una danza delicata da “neo-nouvelle vague” – del resto, non bisogna dimenticare che l’autore ha collaborato coi Cahiers du Cinéma, emblema della “nuova ondata”, a loro tempo.

L’indecisione, l’entusiasmo, la paura-desiderio e il viaggio corrono lungo tutta l’ora e mezzo della pellicola.

Lei, sognatrice disillusa, romantica libertina, che diviene bersaglio del lanciatore di coltelli e lui, che non sa come possa essere, ma quella ragazza gli ha portato un bagaglio di fortuna insperato.
E l’acqua, silenziosa quarta protagonista che, luce ed ombra, svela e cela, quasi come in un moderno “Atalante”.

Il dramma, la corsa, gli applausi frastornanti, la forza delle lame che sibilano verso il corpo di Adèle, perfino l’elegante erotismo che avvolge la protagonista, si stemperano in una delicatezza da sogno, da sospensione su una corda in levare, in un equilibrio di colori in bianco e nero, che riempiono di suggestione anche il mondo del circo, di natura policromo, che ci appare comunque sgargiante, misterioso, profumato di cipria e così brillante tra la polvere del teatro e dei ricordi di una donna che un tempo (vite precedenti?) aveva amato Gabor: “ ti ho cercato ovunque all’inizio, in ogni città […], per mesi ho fermato per strada uomini che ti assomigliavano, poi ho preso delle pillole, mi sono sposata, due volte … no, tre volte, ora non so.”
La vita “prima” è solo lasciata trapelare, in una foschia che ci mantiene alla giusta distanza dai protagonisti perché essi possano esaltare al meglio il loro fascino, un po’ come quel telo bianco, dalle morbide pieghe, che in un attimo iterato, tre, quattro, cinque volte lo stesso, con inquadrature differenti –un singhiozzo, una scarica di flash, copre il corpo di lei, sulle note del magistrale leitmotiv del film, “Who will take my dreams away”, firmato Marianne Faithfull.

Sospiri dietro il velo: di piacere, di sottile paura piena di desiderio.

E occhi, prima quelli di lei, subito in apertura, grandi e tristi, “lontani”, che colpiscono così tanto il lanciatore: “ ma la guardi, con due occhi e un culo simili, lei si butterebbe in acqua?”, chiede Gabor ad una comparsa. Poi quelli di lui, concentrati sotto sopracciglia aggrottate, seri, “terreni”.
Occhi sotto cui (per cui, grazie a cui) rinascere, sotto i quali danzare tra lame di polvere e sole e fra le altre, vere, affilate, in movenze quasi da amore carnale (surrogato di? Sublimazione di?). Certo perfetto per la protagonista, giovane ai limiti della ninfomania, che però non mostra mai apertamente desiderio fisico per il suo compagno di avventura, di un sogno reale che guarisce, purifica, migliora, trova perdendo per il mondo, tra la Francia e l’Italia, la Grecia e la Turchia.
Due elementi di una reazione chimica che chiama la Fortuna, così indagata e cercata lungo tutto il film: “ la fortuna, quella vera, l’ho vista passare, ma da lontano, quella degli altri, a me mancava sempre un pezzo.” E dopo questa confessione, Gabor unisce con un gioco di prestigio due metà di una banconota spezzata.
Come quella banconota, loro sono due metà che non possono che stare unite, come mostra la sfortuna che li coglie non appena si separano; e i dialoghi, botta e risposta, discorsi a distanza che volano sopra la gente e arrivano al destinatario, in un altro posto, tra altri muri, tra altri odori.
E quel ritrovarsi alla fine, questa volta a parti invertite, lui quasi giù da un ponte, e lei che passava di lì; il darsi del “tu”, solo ora, per la prima volta; quell’abbraccio vero, fisico, il primo così reale, di nuovo ripetuto –tre, quattro, cinque volte, braccia e viso nell’incavo del collo, e forse quel profumo che solo dopo essersi persi, ci si accorge di quanto fosse mancato …
Braccia, e viso nell’incavo del collo, tre, quattro, cinque volte allo stesso modo. Un singhiozzo, una scarica di flash.

“Io sono qui, su questo ponte, vicino a voi, vi basterebbe allungare le dita”. Dice la Fortuna.

E l’acqua sotto. L’acqua che guarda, testimone silenziosa, sempre uguale, sempre “la stessa”. L’acqua che scorre e tutto vede, e sempre racconterà.

Letizia Chiodini

Il Re è qui!

TITOLO: “Bubba Ho-Tep”

REGIA: Don Coscarelli

GENERE: Commedia – Horror – Fantasy

DURATA: 92 min.

PRODUZIONE: USA, 2002

Quell’agosto del 1977 morì Elvis Presley nella sua tenuta di Graceland. Ma fu tutto un inganno perché a concludere la carriera, a drogarsi e ingrassare fino alle estreme conseguenze fu invece Sebastian Huff, un imitatore col quale l’artista si era scambiato già da diversi anni per sfuggire ad una vita di eccessi e trovare il meritato riposo. Ora il vero Re sarebbe vecchio e malandato, rinchiuso in un ospizio del Texas dove non gli crede nessuno tranne che un coetaneo afroamericano convinto di essere John Fitzgerald Kennedy. Il tutto prenderà pieghe inimmaginabili quando sul posto arriverà una mummia millenaria affamata di anime e vestita da cow boy.

Alle volte capita di trovare un film geniale, di volerlo rivedere ancora e ancora, di volerlo registrare tra quelli che avrei voluto scrivere, di volerlo acquistare, di volerlo diffondere fino all’esasperazione. Alle volte capita di vedere “Bubba Ho-Tep”(2002). Alle volte capita, e a me è capitato. Lo si potrebbe definire un horror, un fantasy, una commedia o tutto questo insieme. Certamente abbiamo a che fare con un B-Movie per quanto riguarda il budget ma soprattutto lo spirito. Il regista di genere Don Coscarelli non è nuovo a risultati simili, seppur abituato a soggetti ben più convenzionali come comprovato dalla partecipazione al progetto hollywoodiano “Masters of Horror”(2005-06). Nonostante l’indiscutibile qualità del racconto, firmato Joe R. Lansdale, di cui sarebbe trasposizione cinematografica, la vera ricchezza di questo film è senza dubbio l’apporto dell’attore protagonista Bruce Campbell (54 anni oggi), che sotto intere ore di trucco riesce sempre e comunque a donare qualcosa di fresco, di personale, di speciale alla mitica figura. Il tutto finendo col creare ovviamente una novità rispetto all’originale. L’uomo Elvis viene così parodizzato ed omaggiato allo stesso tempo, con grandissima sapienza e senso dell’umorismo. Numerose riflessioni a campo aperto, gestite da un costante flusso di coscienza dello stesso Elvis, tenteranno in tutti i modi di alimentare un’aura di nostalgica empatia nonostante le altrettanto numerose interruzioni dialogiche o situazionali. Un’occasione in più per godere nuovamente di una leggenda ormai sovraumana, di flashback stupendamente confezionati e terribilmente brevi, ma soprattutto di quello splendido costume con pantaloni a zampa d’elefante, gli stivaletti in tinta e l’epica aggiunta del deambulatore. L’apparato tecnico è ai limiti dell’artigianale ma non sfigura mai, persino a livello di effetti visivi, la regia è curata ed esperta, il montaggio musicale assolutamente lodevole. E come spesso accade in certi casi, abbiamo un’intera collezione di battute memorabili e situazioni paradossali, costruite a tavolino per il gusto e il consumo di un pubblico fuori dal comune. Esatto, ho paura di non poter nascondere che si tratti di una pellicola per pochi eletti e neppure che alcuni di voi lo troveranno pacchiano, volgare, insoluto e presuntoso…sbagliando clamorosamente. Perché ‘anche un insetto gigante deve sapere che nessuno, mai e poi mai, può fottere il Re.’

Alessandro Amato

Il rozzo materiale del volere: Cronenberg legge Burroughs

“Seguaci di obsoleti impensabili commerci, scarabocchiati in etrusco, dipendenti da droghe non ancora sintetizzate, gente del mercato nero della Terza Guerra Mondiale, praticanti di assurde sensitività telepatiche, osteopati dello spirito…”

Folle, allucinato, chiaro nella sua insensatezza, ripugnante, ispirato: solo cinque degli aggettivi che possono descrivere questo film, che nel 1991 assorbì i giorni di David Cronenberg, regista poliedrico e immaginifico.

Il Pasto Nudo si consuma in compagnie esotiche ed inusuali, condito di Polvere Gialla e contornato di Carne Nera. Nella solitudine di una camera sulle coste nordafricane, Bill Lee, abituale “giocatore” di Guglielmo Tell e involontario assassino della moglie, incomincia il suo viaggio nell’ Interzona Incorporati. La realtà si miscela con gocce sempre più rade al delirio del tossicodipendente protagonista, scrittore accompagnato da una Clark Nova, “la migliore macchina per scrivere rapporti sulla vita nell’Interzona”. Oggetto di lavoro nella sobrietà, scarafaggio gigante negli altri momenti, rammenterà con la sua bocca tanto somigliante ad un ano, la missione di Bill: scoprire la vita di agenti nemici; infiltrarsi nella casa di una donna, Joan, omonima e identica alla moglie morta; lasciarsi attrarre lungo un viaggio letterario, mentre le mani di lei accarezzano sensualmente i tasti di una macchina per scrivere dai connotati perversi di un essere ermafrodita. Mugwump, esseri mostruosamente alieni si mescolano alla popolazione umana, in questo lontano confine di una Tangeri trasfigurata da una mente sconvolta dalle droghe che si scopre, o rievoca, tendenze omosessuali, allucinazioni di sadismo, reminescenze della precedente vita a New York, quando la moglie c’era ancora e Bill si guadagnava le giornate con un lavoro da disinfestatore.

William Burroughs scrisse, e scrisse con la foga di un protagonista senza regole, scrisse un romanzo che non voleva farsi capire, pretenzioso e presuntuoso. Scrisse di indicibili mutilazioni dello spirito; di un incubo; di “venditori di incubi squisiti e di nostalgie essiccate su cellule sature e malate di droghe sconosciute, barattate con il rozzo materiale del volere”; di arte. Di arte che distrugge, di come l’artista diventi folle e di come cada in un circolo vizioso: la difficoltà di creare annienta e quando si è annientati creare è un dolore. E finalmente … Amnexia, un posto dove entrare richiede una prova, dove Joan (o la sua reincarnazione) muore di nuovo, dove l’elaborazione del lutto arriva allo stadio finale, dove ricomincia l’illusione. Finirà mai?

Cronenberg ha saputo dare occhi alle parole dell’autore, fedele, ma non troppo, non al parossismo: perfetto, inquietante oltre Lynch. Non è un film che possano gustare tutte le bocche, “non si capisce”, qualcuno dirà, è vero. Ma non vuole essere capito. Vuole essere guardato. Ad alcuni capiterà di interromperlo a metà, forse presi dallo sconforto o dall’insensatezza. Perché no? In fondo, sembra dirlo anche Bill, parlando ai suoi amici: “arrivate dove volete, purchè lo facciate con dolcezza”.

Si può provare, ci si può sedere su una poltrona davanti alla televisione ed aspettare che ci raccontino la loro ispirazione, questi “bevitori di fluido pesante sigillato in traslucente ambra di sogni”.

Letizia Chiodini

Il coniglio che ha incastrato Hollywood – Storia di un grande Cult

Era esattamente il 1988 quando, grazie al regista Robert Zemeckis (reduce dal successo internazionale del primo capitolo della trilogia “Ritorno al Futuro”, uscito tre anni prima) e al produttore Steven Spielberg, si assisteva ad una vera e propria svolta per quel che riguarda sia il cinema live-action sia quello d’animazione. Quell’anno uscì “Chi ha Incastrato Roger Rabbit”, lungometraggio che univa nelle stesse scene attori reali e cartoni animati in una maniera totalmente nuova – diversa rispetto ai film del passato in cui erano presenti esperimenti di questo genere (come ad esempio il celeberrimo “Mary Poppins”) – che dava al tutto un realismo davvero stupefacente.

La trama è già di per se un piccolo capolavoro, capace di fondere perfettamente toni da film comico e d’animazione con quelli più seri da giallo e noir, ed è talmente nota che sembra quasi superfluo ricordarla nei dettagli in questa sede. Basterà ricordare come, nel mondo raccontato nel film, i cartoni animati sono entità reali, i cui film vengono girati all’interno di veri e propri studios, come se si trattasse di lavori con attori umani. I guai cominciano quando la più famosa stella del mondo dei cartoni, il coniglio Roger Rabbit, viene accusato dell’omicidio del presunto amante della moglie, la bomba sexy Jessica Rabbit. Braccato dal perfido Giudice Morton (un magistrale Christopher Lloyd) e dai suoi scagnozzi, Roger, per riuscire a discolparsi, sarà costretto a rivolgersi proprio alla persona che sembra la meno adatta a risolvere il caso: il detective privato Eddie Valiant (un altrettanto magistrale Bob Hoskins), caduto nel tunnel della depressione e dell’alcolismo in seguito alla morte dell’amato fratello, avvenuta proprio per mano di un misterioso cartone animato.

Parlando della produzione, partita agli inizi del 1986, essa si rivelò fin da subito difficile sotto quasi tutti gli aspetti dato il livello qualitativo che si voleva raggiungere; in particolar modo furono molto complesse le riprese con gli attori, i quali (come del resto tutta la troupe) dovevano lavorare con personaggi e oggetti non presenti sul set, cosa che li porto a ricorrere ai più disparati metodi di preparazione per raggiungere un buon risultato (Hoskins ammise di aver preso spunto dai suoi figli piccoli, guardandoli parlare con i loro amici immaginari) e i tecnici dovettero lavorare su un sapiente gioco di fili e di domino per dare l’illusione che oggetti reali come sedie e tavoli si spostassero al tocco dei personaggi animati. Il lavoro di post-produzione fu inoltre estremamente lungo, in quanto gli animatori dovettero disegnare a mano i personaggi animati su ogni singolo fotogramma in cui essi apparivano. Vinse tre indiscutibili Oscar tecnici: montaggio, effetti speciali visivi e sonori.

In conclusione possiamo però dire che tutti quegli sforzi vennero ampiamente premiati, in quanto regalarono alla storia del cinema un cult movie epico, che avrebbe rivoluzionato tutta la cinematografia di genere negli anni successivi, che avrebbe fatto divertire allo stesso modo bambini e adulti e nel quale (piccola curiosità) è possibile ammirare insieme, in una medesima scena, due figure epiche del mondo dei cartoni: Mickey Mouse e Bugs Bunny.

Giacomo Buzzoni

Follia e Redenzione

Può una famiglia totalmente devastata sia sul piano fisico che su quello psicologico essere, in qualche modo, salvata?

La risposta è sì…ma la cura, in situazioni cosi estreme, può essere altrettanto estrema e portare a risultati impensati. Tutto ciò ci viene mostrato in Visitor Q, film violento in ogni senso possibile, sanguinario e sanguigno, spregiudicato, senza vergogna ma anche inaspettatamente poetico, partorito dalla mente di Takashi Miike, regista giapponese tra i più prolifici e controversi degli ultimi vent’anni.

Con estrema chiarezza e crudezza, Miike racconta qui la storia degli Yamazaki, famiglia giapponese del ceto medio, sull’orlo ormai di un collasso totale (un padre represso, una madre remissiva che arriva a farsi picchiare selvaggiamente da un figlio vittima del bullismo più atroce, una figlia scappata di casa per vivere da sola prostituendosi).

A fare la differenza per tutti loro sarà l’inspiegabile e provvidenziale incontro con un misterioso giovane (il visitatore del titolo) che, come una sorta di “redentore”, riuscirà, nei modi più assurdi ed impensati, a restituire a queste persone la voglia di vivere e, soprattutto, a fargli in qualche modo scoprire il significato di essere una famiglia unita, rappresentato nell’emblematica scena finale.

Anche un completo profano del cinema giapponese e del lavoro di Miike stesso (come lo è il sottoscritto) non può che rimanere assai colpito da questo film, capace di suscitare nello spettatore ogni genere di emozione, dalla più ripugnante fino alla più sensibile e poetica, ed in grado di provocare quindi parecchie riflessioni sui molteplici temi trattati riuscendo perfino a trascendere il modo in cui essi sono rappresentati.

In conclusione si può quindi dire che, nonostante tutto, si tratta di un film che bisognerebbe provare a guardare almeno una volta; e anche se non tutti potrebbero esserne impressionati favorevolmente, a causa del già menzionato linguaggio visivo estremamente crudo, chi avrà la pazienza di scavare al di sotto di esso, troverà un messaggio estremamente sensibile e profondo.

Giacomo Buzzoni