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Ted (Non preoccupatevi, non è un’altra inutile pagina di Facebook)

TITOLO: “Ted”

REGIA: Set McFarlane

GENERE: Commedia

DURATA: 1o6 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Giovedì 4 ottobre 2012

Ted è un film che ha già nauseato chi frequenta abitualmente il web e Facebook.

Che un orsetto di peluche, animato grazie ad un desiderio natalizio, fumasse il bong lo si sapeva già da mesi e da fastidio un pubblico che va al cinema sapendo già di cosa ridere.

Mi spiego meglio. Domenica sera, in centro a Milano, al cinema Odeon, l’orsacchiotto di Set MacFarlane si è esibito davanti ad una sala quasi piena a poco meno di tre settimane dalla sua uscita nelle sale italiane. Si tratta evidentemente di un fenomeno in cui molti vogliano mettere la propria firma, dire “c’ero anche io” per poter ridere alle sue battute e citarle nelle prossime settimane sui social network. Ecco perché Ted, un film dal concept geniale, non ha il pubblico che si merita.

Tralasciando gli imbarazzanti applausi, estremamente fastidiosi, in sala ad ogni battuta del film (neanche fosse la prima di Frankenstein Jr.), sono rimasto basito da un elevato numero di persone che, bene educate e indottrinate da trailer e spoiler continui, sapevano già quando ridere e quando sarebbe arrivata quella precisa battuta che avevano letto s quel post. La triste verità è che la vera comicità di MacFarlane, quella fatta di non-sense e ripetizioni quasi ossessive, è stata colta da pochi e le battute migliori sono passate tristemente silenziose (a parte il sottoscritto che rideva da solo nel buio della sala), immeritatamente in sordina rispetto alle parti più grossolane e pubblicizzate. La canzoncina del temporale fa ridere ma molto più divertente è la descrizione tagliente e “piazzata lì” delle capacità attoriali di Sam J. Jones nel pluricitato Flash Gordon (1980). Fa ridere il teddy bear coccoloso e un po’ sgualcito strafatto di erba che dice parolacce, ma in pochi, a parere di chi scrive, sono stati in grado di apprezzare in pieno un film che merita una lettura decisamente meno volgare e superficiale di quella che gli viene dedicata.

Se il pubblico in sala prende un’ insufficienza grave (ma il pubblico cinematografico di Milano raramente andrebbe promosso), il film passa con buoni voti.

Come già detto, l’idea di base è eccezionale e segna un buon passo avanti nella rilettura sempre più televisiva e fumettistica del cinema. Il creatore de I Griffin ne approfitta per inserire una buona dose di cattiveria e di irriverenza, senza paura di estrarre dal cappello dell’immaginazione battute a carattere sessuale delle più esplicite e una rilettura coraggiosa della tipica favola di Natale che porta, nelle locandine, l’orsacchiotto Ted ad autocensurarsi.

Apprezzabile il lavoro registico che raggiunge il proprio apice nella sequenza in cui, dopo aver sniffato cocaina (altro tema difficile che MacFarlane tratta con una leggerezza quasi preadolescenziale), l’orsacchiotto e il protagonista Mark Wahlberg decidono di aprire un bar. Lì la cinepresa è in grado di seguire i pensieri confusi e allucinate dei due protagonisti, disegnandone il ritmo e la confusione.

Bravi i due principali attori umani: il già citato Mark Wahlberg e Mila Kunis che formano una coppia credibile e ben assortita, nella trama così come nell’intesa in fase di ripresa.

Un altro articolo dedicato meriterebbe l’effetto speciale che da vita a Ted sullo schermo. Set MacFarlane ha utilizzato una tecnologia molto simile a quella impiegata da Peter Jackson sul set de Il Signore degli Anelli per realizzare Gollum. La differenza sta nella possibilità, per MacFarlane (regista e protagonista del film) di poter indossare la tuta davanti alla telecamera interagendo fin da subito come orsacchiotto di peluche con gli attori in carne ed ossa, mentre Andy Serkis (Gollum), pur recitando fin da subito, doveva fare ulteriori riprese da solo per potersi trasformare nella creatura descritta da Tolkien. Questo sistema offre una possibilità di variare e improvvisare illimitata ed una naturalezza sullo schermo che deriva proprio dall’interazione massima tra digitale e umano.

Bel film, si ride molto e si rimane sorpresi da una violenza da cartone animato che non si limita nemmeno di fronte al picchiare bambini. Unica pecca: il finale. Non si anticipa nulla in questo articolo, ma bisogna sottolineare come il film perda tanti punti a causa del suo stesso epilogo. Iniziata con un bambino ebreo picchiato per le festività, la pellicola perde in cattiveria man mano che avanzano i minuti fino a giungere ad una conclusione buonista che tradisce lo spirito iniziale e che risulta dolciastra ed indigesta. Certo, fanno ridere le scritte in coda alla Animal House, ma ci sarebbe da chiedersi quanto la produzione abbia influito sulla stesura del testo o preoccuparsi per una inspiegabile sconfitta della parodia e della cattiveria da parte di MacFarlane che, in ogni caso, sorprende in negativo proprio all’ultimo, dopo una prestazione decisamente meritevole.

Simone Falcone

Da 50 anni Bond…James Bond!

Infatti, da mezzo secolo esatto il più celebre agente al servizio segreto di sua maestà ci fa ogni volta divertire ed emozionare al cinema con le sue fantastiche avventure.
Nato dalla penna dello scrittore britannico Ian Fleming (che, come dice la leggenda, iniziò a scrivere romanzi per scampare alla noia della vita coniugale) l’agente con licenza di uccidere 007, che ruba il nome ad un celebre ornitologo dell’epoca, fece la sua prima comparsa nel romanzo “Casino Royale” del 1953. Da allora, dato il successo di quella prima storia, Fleming scrisse e pubblicò un romanzo o una raccolta di racconti sul suo personaggio ogni anno, fino alla propria morte, avvenuta nel 1964 (anche se l’ultima raccolta, “Octopussy”, venne pubblicata postuma nel 1966). Dopo che i produttori Harry Saltzman e Albert R. Broccoli (fondatori della EON Productions) acquistarono nel ’61 i diritti di quasi tutti i romanzi di Fleming (con l’eccezione di “Casino Royale”, i cui diritti sarebbero stati acquistati solo nel ’96), nel 1962 uscì il primo film tratto dai romanzi, “Dr No” (tradotto in italiano come “Licenza di Uccidere”).

Nei panni dell’agente segreto c’era un semi-esordiente attore scozzese, che da quel momento sarebbe stato identificato come lo 007 per antonomasia, ovvero Sean Connery. Tuttavia, dopo 5 film, Connery (in seguito a litigi di natura economica con i produttori e timoroso di rimanere per sempre incatenato al personaggio) lasciò la saga, venendo sostituito dal modello Goerge Lazenby; il quale però abbandonò il ruolo dopo solo un film, “Al servizio segreto di sua maestà”, in quanto la sua interpretazione non incontrò il favore del pubblico. Connery quindi si vide costretto a ritornare per il successivo “Una Cascata di Diamanti”, in seguito al quale abbandonò definitivamente la serie (anche se nel 1983 avrebbe interpretato per l’ultima volta Bond nell’apocrifo “Mai dire mai”).

A raccogliere la sua eredità venne chiamato un celebre attore britannico, Roger Moore, che con ben 7 pellicole all’attivo (interpretò ininterrottamente il personaggio dal ’73 all’ ’85) è ricordato come il Bond cinematografico più longevo e senza ombra di dubbio più divertente, in quanto tutti i suoi film sono caratterizzati da uno spiccato humor tipicamente inglese.

Dopo Moore, fu la volta di Timothy Dalton, che interpretò Bond dall’ 87 all’ 89. Questi, da bravo attore shakespeariano, per prepararsi al ruolo lesse approfonditamente tutti i romanzi, cosa che rese il suo 007 molto più umano, realistico, fragile e capace di commettere errori, riavvicinandolo molto all’originale idea fleminghiana del personaggio.
Purtroppo, causa i molti problemi della produzione e lo scarso successo di pubblico dei due film con lui protagonista, Dalton fu costretto presto ad abbandonare il ruolo.

Infine, con il fortunatissimo “GoldenEye” del 1995 (chiamato così in omaggio alla villa in Giamaica dove Fleming scrisse i suoi romanzi) ebbe inizio il periodo di Pierce Brosnan, attualmente uno degli interpreti più apprezzati della serie.

L’attuale Bond del cinema è Daniel Craig, che nei film finora da lui interpretati (“Casino Royale”, “Quantum of Solace” e l’imminente “Skyfall”) ha saputo far riavvicinare ancora una volta il personaggio all’idea originale del suo autore, ovvero quel giusto insieme di durezza, fragilità, emozione e ironia.

In conclusione ricordiamo alcuni degli elementi tipici dell’universo di Bond: le auto (la mitica Aston Martin ne è un perfetto esempio), le sensuali e a volte letali Bond-Girls, il buon Q e le sue invenzioni sempre azzeccate alla situazione, le leggendarie Title Tracks che ogni volta ci introducono ad una nuova avventura. Insomma, tutto fa pensare che il nostro eroe possa farci sognare almeno per altri 50 anni, ma intanto, per festeggiare questo primo mezzo secolo, l’appuntamento è al cinema per il 31 ottobre, data di uscita del 23esimo film della saga, il già citato “Skyfall”.

Giacomo Buzzoni

“La ragazza sul ponte”: una poesia visiva sulla Fortuna

<<Ora le racconto una storia. Tanto tempo fa, abitavo in una strada dalla parte dei numeri pari, al ventidue, e guardavo dalla finestra i numeri dispari, le case di fronte, perché credevo che la gente che ci viveva fosse più felice, che le stanze fossero più luminose, che le serate fossero più allegre. Ma le camere erano buie, le stanze più piccole, e i numeri dispari guardavano i numeri di fronte. Perché … pensiamo sempre che la fortuna sia ciò che non si ha.>> – Gabor.

“Quante volte mi chiamate, alzate la voce, vi arrabbiate, mi insultate, rimanete ad aspettarmi fino a notte, e ancora fino all’alba?
Quanti altari avete alzato per me, nei secoli, ditemi, di quante preghiere sono piene le mie orecchie?
E io. Io che dovrei sentirmi lusingata e correre da voi, da tutti voi. Siete così tanti …
Eppure, quanti corrono da me? Quanti mi vengono a cercare? Molti meno.
A volte, mi trovo proprio lì dove siete, vi basterebbe allungare le dita …
… come su quel ponte, quella sera: io c’ero.

Lei era una ragazza che credeva di non aver più nulla da perdere, se non un po’ di quota, per atterrare nell’acqua, giù dal ponte; lui, un lanciatore di coltelli spiantato e dimenticato dal mondo.
Due persone che, ognuna per sé, mi avevano cercata a lungo.

E io, io sono la Fortuna.”

Così li ha fatti incontrare, la dea bendata, su un ponte, col fumo che esce dalla bocca e il freddo dentro: Adèle, una Vanessa Paradis fatta apposta per la parte e Gabor, eccentrico lanciatore di coltelli che è valso un César al suo interprete, Daniel Auteuil.
Fuori dal tempo e dalla realtà, la Fortuna li ha messi insieme dietro la macchina da presa di Patrice Leconte, che con questo film (datato 1999) ritorna allo splendore delle sue origini.
L’audacia di un bianco e nero misterioso, di ombre e luci che giocano con gli occhi in una danza delicata da “neo-nouvelle vague” – del resto, non bisogna dimenticare che l’autore ha collaborato coi Cahiers du Cinéma, emblema della “nuova ondata”, a loro tempo.

L’indecisione, l’entusiasmo, la paura-desiderio e il viaggio corrono lungo tutta l’ora e mezzo della pellicola.

Lei, sognatrice disillusa, romantica libertina, che diviene bersaglio del lanciatore di coltelli e lui, che non sa come possa essere, ma quella ragazza gli ha portato un bagaglio di fortuna insperato.
E l’acqua, silenziosa quarta protagonista che, luce ed ombra, svela e cela, quasi come in un moderno “Atalante”.

Il dramma, la corsa, gli applausi frastornanti, la forza delle lame che sibilano verso il corpo di Adèle, perfino l’elegante erotismo che avvolge la protagonista, si stemperano in una delicatezza da sogno, da sospensione su una corda in levare, in un equilibrio di colori in bianco e nero, che riempiono di suggestione anche il mondo del circo, di natura policromo, che ci appare comunque sgargiante, misterioso, profumato di cipria e così brillante tra la polvere del teatro e dei ricordi di una donna che un tempo (vite precedenti?) aveva amato Gabor: “ ti ho cercato ovunque all’inizio, in ogni città […], per mesi ho fermato per strada uomini che ti assomigliavano, poi ho preso delle pillole, mi sono sposata, due volte … no, tre volte, ora non so.”
La vita “prima” è solo lasciata trapelare, in una foschia che ci mantiene alla giusta distanza dai protagonisti perché essi possano esaltare al meglio il loro fascino, un po’ come quel telo bianco, dalle morbide pieghe, che in un attimo iterato, tre, quattro, cinque volte lo stesso, con inquadrature differenti –un singhiozzo, una scarica di flash, copre il corpo di lei, sulle note del magistrale leitmotiv del film, “Who will take my dreams away”, firmato Marianne Faithfull.

Sospiri dietro il velo: di piacere, di sottile paura piena di desiderio.

E occhi, prima quelli di lei, subito in apertura, grandi e tristi, “lontani”, che colpiscono così tanto il lanciatore: “ ma la guardi, con due occhi e un culo simili, lei si butterebbe in acqua?”, chiede Gabor ad una comparsa. Poi quelli di lui, concentrati sotto sopracciglia aggrottate, seri, “terreni”.
Occhi sotto cui (per cui, grazie a cui) rinascere, sotto i quali danzare tra lame di polvere e sole e fra le altre, vere, affilate, in movenze quasi da amore carnale (surrogato di? Sublimazione di?). Certo perfetto per la protagonista, giovane ai limiti della ninfomania, che però non mostra mai apertamente desiderio fisico per il suo compagno di avventura, di un sogno reale che guarisce, purifica, migliora, trova perdendo per il mondo, tra la Francia e l’Italia, la Grecia e la Turchia.
Due elementi di una reazione chimica che chiama la Fortuna, così indagata e cercata lungo tutto il film: “ la fortuna, quella vera, l’ho vista passare, ma da lontano, quella degli altri, a me mancava sempre un pezzo.” E dopo questa confessione, Gabor unisce con un gioco di prestigio due metà di una banconota spezzata.
Come quella banconota, loro sono due metà che non possono che stare unite, come mostra la sfortuna che li coglie non appena si separano; e i dialoghi, botta e risposta, discorsi a distanza che volano sopra la gente e arrivano al destinatario, in un altro posto, tra altri muri, tra altri odori.
E quel ritrovarsi alla fine, questa volta a parti invertite, lui quasi giù da un ponte, e lei che passava di lì; il darsi del “tu”, solo ora, per la prima volta; quell’abbraccio vero, fisico, il primo così reale, di nuovo ripetuto –tre, quattro, cinque volte, braccia e viso nell’incavo del collo, e forse quel profumo che solo dopo essersi persi, ci si accorge di quanto fosse mancato …
Braccia, e viso nell’incavo del collo, tre, quattro, cinque volte allo stesso modo. Un singhiozzo, una scarica di flash.

“Io sono qui, su questo ponte, vicino a voi, vi basterebbe allungare le dita”. Dice la Fortuna.

E l’acqua sotto. L’acqua che guarda, testimone silenziosa, sempre uguale, sempre “la stessa”. L’acqua che scorre e tutto vede, e sempre racconterà.

Letizia Chiodini

Bentornato, Spider-Man!

TITOLO: “The Amazing Spider-Man”

REGIA: Marc Webb

GENERE: Azione – Fantasy

DURATA: 136 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Mercoledì 4 luglio 2012

E’ arrivato nelle sale italiane “The Amazing Spider-Man”, diretto da Marc Webb, ultimo adattamento cinematografico delle avventure del celebre supereroe Marvel.
Che dire di questo film? Una sola e semplice cosa: finalmente, dopo anni di attese e delusioni, abbiamo avuto ciò che attendevamo da sempre, un film su Spider-man con Spider-man protagonista! Nel senso che il personaggio ( differenziandosi dalla trilogia diretta da Sam Raimi tra il 2002 e il 2007) viene rappresentato sullo schermo così come è nel fumetto, senza inutili stravolgimenti.

In questa avventura lo studente liceale Peter Parker ( interpretato da un ottimo Andrew Garfield) abbandonato dai genitori quando era solo un bambino e affidato alle cure degli zii Ben e May, intraprenderà un’indagine personale nel tentativo di scoprire la verità sulla scomparsa del padre e della madre, cosa che lo porterà ad acquisire degli stupefacenti superpoteri. Durante le sue ricerche si imbatterà anche nel dottor Curt Connors (un eccellente Rhys Ifans), ex-collega del padre, che diventerà ben presto il terribile Lizard, suo temibile nemico. In mezzo a tutto questo ci sarà tempo anche per l’amore, incarnato nella splendida Gwen Stacy (Emma Stone), ragazza splendida e dotata di grande intelligenza e carattere.

I pregi di questi film sono molteplici, a partire dall’eccellente lavoro di tutti gli attori, da Garfield, che dona infine una grande dignità al personaggio di Peter, a Ifans, capace di tratteggiare un cattivo mai banale ed estremamente fragile, con cui è facile entrare in sintonia; senza contare l’eccellente Martin Sheen nei panni di Zio Ben, figura fondamentale dell’universo di Spidey.
La regia di Webb è ottima, studiata nei minimi dettagli, capace di adattarsi alle più frenetiche scene d’azione sia a quelle più dense di emozioni. Sceneggiatura ben costruita e colonna sonora accattivante completano infine il tutto.

In conclusione possiamo quindi dire che questo è davvero il film che ogni fan di Spider-Man stava aspettando, e che nonostante non sia esente da difetti, vale assolutamente il prezzo del biglietto, e assicura tanta emozione e divertimento.

Giacomo Buzzoni

Il Re è qui!

TITOLO: “Bubba Ho-Tep”

REGIA: Don Coscarelli

GENERE: Commedia – Horror – Fantasy

DURATA: 92 min.

PRODUZIONE: USA, 2002

Quell’agosto del 1977 morì Elvis Presley nella sua tenuta di Graceland. Ma fu tutto un inganno perché a concludere la carriera, a drogarsi e ingrassare fino alle estreme conseguenze fu invece Sebastian Huff, un imitatore col quale l’artista si era scambiato già da diversi anni per sfuggire ad una vita di eccessi e trovare il meritato riposo. Ora il vero Re sarebbe vecchio e malandato, rinchiuso in un ospizio del Texas dove non gli crede nessuno tranne che un coetaneo afroamericano convinto di essere John Fitzgerald Kennedy. Il tutto prenderà pieghe inimmaginabili quando sul posto arriverà una mummia millenaria affamata di anime e vestita da cow boy.

Alle volte capita di trovare un film geniale, di volerlo rivedere ancora e ancora, di volerlo registrare tra quelli che avrei voluto scrivere, di volerlo acquistare, di volerlo diffondere fino all’esasperazione. Alle volte capita di vedere “Bubba Ho-Tep”(2002). Alle volte capita, e a me è capitato. Lo si potrebbe definire un horror, un fantasy, una commedia o tutto questo insieme. Certamente abbiamo a che fare con un B-Movie per quanto riguarda il budget ma soprattutto lo spirito. Il regista di genere Don Coscarelli non è nuovo a risultati simili, seppur abituato a soggetti ben più convenzionali come comprovato dalla partecipazione al progetto hollywoodiano “Masters of Horror”(2005-06). Nonostante l’indiscutibile qualità del racconto, firmato Joe R. Lansdale, di cui sarebbe trasposizione cinematografica, la vera ricchezza di questo film è senza dubbio l’apporto dell’attore protagonista Bruce Campbell (54 anni oggi), che sotto intere ore di trucco riesce sempre e comunque a donare qualcosa di fresco, di personale, di speciale alla mitica figura. Il tutto finendo col creare ovviamente una novità rispetto all’originale. L’uomo Elvis viene così parodizzato ed omaggiato allo stesso tempo, con grandissima sapienza e senso dell’umorismo. Numerose riflessioni a campo aperto, gestite da un costante flusso di coscienza dello stesso Elvis, tenteranno in tutti i modi di alimentare un’aura di nostalgica empatia nonostante le altrettanto numerose interruzioni dialogiche o situazionali. Un’occasione in più per godere nuovamente di una leggenda ormai sovraumana, di flashback stupendamente confezionati e terribilmente brevi, ma soprattutto di quello splendido costume con pantaloni a zampa d’elefante, gli stivaletti in tinta e l’epica aggiunta del deambulatore. L’apparato tecnico è ai limiti dell’artigianale ma non sfigura mai, persino a livello di effetti visivi, la regia è curata ed esperta, il montaggio musicale assolutamente lodevole. E come spesso accade in certi casi, abbiamo un’intera collezione di battute memorabili e situazioni paradossali, costruite a tavolino per il gusto e il consumo di un pubblico fuori dal comune. Esatto, ho paura di non poter nascondere che si tratti di una pellicola per pochi eletti e neppure che alcuni di voi lo troveranno pacchiano, volgare, insoluto e presuntoso…sbagliando clamorosamente. Perché ‘anche un insetto gigante deve sapere che nessuno, mai e poi mai, può fottere il Re.’

Alessandro Amato

Men in Black again: ritorno al passato per il futuro della Terra

TITOLO: “Men in Black 3″

REGIA: Barry Sonnenfeld

GENERE: Azione – Commedia – Fantasy

DURATA: 105 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Venerdì 23 maggio 2012

Gli uomini in nero sono tornati, e questa volta in grande stile, a 10 anni esatti dal deludente secondo capitolo e addirittura 15 dallo storico primo.

Nell’ultima avventura gli agenti J e K (Will Smith e Tommy Lee Jones, ormai perfettamente a loro agio nella parte) se la dovranno vedere con un nemico davvero spietato: il boglodita Boris l’Animale. Quando quest’ultimo tornerà indietro nel tempo per cancellare K dalla storia (in quanto responsabile dei suoi 40 anni di prigionia) J dovrà anche lui viaggiare a ritroso fino al 1969, e aiutare il suo giovane futuro collega (interpretato dalla new entry Josh Brolin) a sopravvivere e a salvare la Terra.

Cosa dire su questo film? Beh, che sicuramente tutti i fan di questa saga, con la quale molti (compreso il sottoscritto) sono cresciuti, non potranno che essere contenti di rivedere i loro personaggi preferiti in un progetto molto ben fatto e quasi ai livelli del primo, mitico, capitolo. I fattori che hanno portato a tale ottimo risultato sono molteplici a partire dalla performance degli attori tra cui sembra spiccare il già citato Josh Brolin che, oltre a dimostrare la sua bravura recitativa, è riuscito, senza dubbio grazie ad attento lavoro di osservazione e imitazione, a rendere talmente bene i gesti e le espressioni del signor Jones che in certi momenti sembra davvero di vedere una sua versione giovane.

Altro merito va alla regia collaudata di Barry Sonnenfeld e soprattutto alla sceneggiatura di Etan Choen (noto principalmente per avere collaborato alla scrittura del cult “Tropic Thunder”), chiaramente ispirata, nella parte del viaggio nel tempo, ad un altro grande cult del cinema fantascientifico popolare ovvero “Ritorno al futuro”. Il tutto risulta capace di fondere armoniosamente l’azione e il divertimento, come nella migliore tradizione della saga.

Vale dunque il prezzo del biglietto? Assolutamente sì. Restando in tema, esso saprà certamente riportare al passato chiunque abbia amato i capitoli precedenti e sarà in grado di far passare due buone orette anche a chi (diciamo per disgrazia) non si sia mai avvicinato alla saga.

Giacomo Buzzoni

 

L’eroe che venne dal futuro

Un saluto affettuoso all’attore canadese (naturalizzato statunitense) Michael J. Fox (51 anni oggi), noto a molti per l’interpretazione di Martin McFly, irresistibile protagonista della saga “Ritorno al futuro”(1985, 1989, 1990) di Robert Zemeckis. Non si tirino subito delle conclusioni affrettate, per cortesia: egli fortunatamente non ci ha lasciati e nemmeno ci è andato vicino, piuttosto sappiate che semplicemente amiamo ricordare la sua storia.

Colpito da una grave forma di Parkinson giovanile, ne rese pubblica la notizia solo nel 1998 quando aveva ormai conquistato i cuori di milioni di fan e completato quasi del tutto (per scelta come per necessità) la propria carriera cinematografica.

Quest’ultima composta per lo più da commedie stereotipate e magari un tantino retoriche ma senza dubbio piene di brio e il più delle volte scritte praticamente sulla sua pelle.

Ottimi recuperi sarebbero, a tal proposito, “Il segreto del mio successo”(1987) di Herbert Ross, “Insieme per forza”(1991) di John Badham con James Woods, “Caro zio Joe”(1994) di Jonathan Lynn con Kirk Douglas (!!!), “Sospesi nel tempo”(1996) di Peter Jackson e “Intestate 60”(2000) di Bob Gale (già produttore/sceneggiatore della trilogia di Zemeckis) con Gary Oldman. Incontrerà invece la già citata (v. Editoriale) Natalie Portman in “Mars Attacks!!”(1996) di Tim Burton, nel quale si limita ad un improbabile cameo. Allo stesso tempo non sono però da dimenticare la pellicola drammatica “Vittime di guerra”(1989) di Brian De Palma con Sean Penn e la collaborazione con Woody Allen.

Negli ultimi tempi si dedica molto alla televisione e alla vita famigliare, avendo colto nella propria situazione un insperato lato positivo che lo trattiene dal vivere senza limiti. <<La malattia – ha detto – mi ha salvato la vita>>. Curiosa ed emozionante la fugace (auto-ironica) apparizione in veste di guest-star nella terza stagione (2004) della serie “Scrubs”, che lo vede interpretare un medico esperto ma invalidato da manie ossessivo-compulsive.

Sostenitore e raccoglitore di fondi a favore della ricerca sulle cellule staminali, il Nostro ha creato la Michael J. Fox Foundation for Parkinson’s Research e in seguito ha scritto un libro autobiografico, intitolato Lucky Man. Nel 2010 è riapparso nelle vesti che l’hanno reso celebre in occasione del 25esimo anniversario di “Ritorno al futuro”, per il quale è stato disposto persino a rigirare il trailer e promuovere così la distribuzione del cofanetto Blu-Ray.

Un amore per il sogno del cinema, il suo, ancora forte e insaziabile sebbene il fato sembra aver voluto altrimenti. Siamo perciò in attesa di buone nuove da questo artista, da questo simbolo di una generazione di eterni ragazzi che hanno visto il mondo crollare sotto i loro piedi quando avrebbero preferito volare a bordo di una DeLorean verso un futuro che ricordavano migliore. Ora lo guardano con coraggio, con ottimismo e vivono le loro vite cogliendo l’attimo e aiutando il prossimo, o almeno è quello che dovrebbero fare seguendo l’esempio di Michael J. Fox.

Alessandro Amato

Il rozzo materiale del volere: Cronenberg legge Burroughs

“Seguaci di obsoleti impensabili commerci, scarabocchiati in etrusco, dipendenti da droghe non ancora sintetizzate, gente del mercato nero della Terza Guerra Mondiale, praticanti di assurde sensitività telepatiche, osteopati dello spirito…”

Folle, allucinato, chiaro nella sua insensatezza, ripugnante, ispirato: solo cinque degli aggettivi che possono descrivere questo film, che nel 1991 assorbì i giorni di David Cronenberg, regista poliedrico e immaginifico.

Il Pasto Nudo si consuma in compagnie esotiche ed inusuali, condito di Polvere Gialla e contornato di Carne Nera. Nella solitudine di una camera sulle coste nordafricane, Bill Lee, abituale “giocatore” di Guglielmo Tell e involontario assassino della moglie, incomincia il suo viaggio nell’ Interzona Incorporati. La realtà si miscela con gocce sempre più rade al delirio del tossicodipendente protagonista, scrittore accompagnato da una Clark Nova, “la migliore macchina per scrivere rapporti sulla vita nell’Interzona”. Oggetto di lavoro nella sobrietà, scarafaggio gigante negli altri momenti, rammenterà con la sua bocca tanto somigliante ad un ano, la missione di Bill: scoprire la vita di agenti nemici; infiltrarsi nella casa di una donna, Joan, omonima e identica alla moglie morta; lasciarsi attrarre lungo un viaggio letterario, mentre le mani di lei accarezzano sensualmente i tasti di una macchina per scrivere dai connotati perversi di un essere ermafrodita. Mugwump, esseri mostruosamente alieni si mescolano alla popolazione umana, in questo lontano confine di una Tangeri trasfigurata da una mente sconvolta dalle droghe che si scopre, o rievoca, tendenze omosessuali, allucinazioni di sadismo, reminescenze della precedente vita a New York, quando la moglie c’era ancora e Bill si guadagnava le giornate con un lavoro da disinfestatore.

William Burroughs scrisse, e scrisse con la foga di un protagonista senza regole, scrisse un romanzo che non voleva farsi capire, pretenzioso e presuntuoso. Scrisse di indicibili mutilazioni dello spirito; di un incubo; di “venditori di incubi squisiti e di nostalgie essiccate su cellule sature e malate di droghe sconosciute, barattate con il rozzo materiale del volere”; di arte. Di arte che distrugge, di come l’artista diventi folle e di come cada in un circolo vizioso: la difficoltà di creare annienta e quando si è annientati creare è un dolore. E finalmente … Amnexia, un posto dove entrare richiede una prova, dove Joan (o la sua reincarnazione) muore di nuovo, dove l’elaborazione del lutto arriva allo stadio finale, dove ricomincia l’illusione. Finirà mai?

Cronenberg ha saputo dare occhi alle parole dell’autore, fedele, ma non troppo, non al parossismo: perfetto, inquietante oltre Lynch. Non è un film che possano gustare tutte le bocche, “non si capisce”, qualcuno dirà, è vero. Ma non vuole essere capito. Vuole essere guardato. Ad alcuni capiterà di interromperlo a metà, forse presi dallo sconforto o dall’insensatezza. Perché no? In fondo, sembra dirlo anche Bill, parlando ai suoi amici: “arrivate dove volete, purchè lo facciate con dolcezza”.

Si può provare, ci si può sedere su una poltrona davanti alla televisione ed aspettare che ci raccontino la loro ispirazione, questi “bevitori di fluido pesante sigillato in traslucente ambra di sogni”.

Letizia Chiodini

Burton – Il ritorno. Una commedia (quasi) tutta al femminile.

TITOLO: “Dark Shadows”

REGIA: Tim Burton

GENERE: Commedia – fantasy

DURATA: 140 min.

PRODUZIONE: USA, 2011

USCITA NELLE SALE: Venerdì 11 maggio 2012

Tim Burton si rinnova, se non nei temi, perlomeno nello stile.

Dopo l’uscita del trailer di “Frankenweenie”, si iniziava a dubitare sulla capacità del regista di rinnovarsi e di staccarsi da uno stile indubbiamente interessante ma che, ormai, puzza di stantio e di negozi di gadget. Burton sembrava, ormai, aver cavalcato l’onda di una indubbiamente meritata fama senza avere, però, il coraggio di scendere dal piedistallo e di provare qualcosa d’altro.

“Dark Shadows” sembra, però,    essere un passo avanti. L’artista, ovviamente, non rinuncia alla atmosfere ed ai temi gotici, proponendo una storia di vampiri, streghe e licantropi, ma si getta su nuovi scenari che, in alcuni momenti, abbandonano il gotico per diventare kitsch e barocchi, mescolando meravigliosamente gli stili dell’aristocrazia di fine Settecento con il peggio dei Seventies novecenteschi.

La storia, infatti, è tratta da una serie televisiva risalente alla fine degli anni ‘60 e narra di un vampiro maledetto da una strega risvegliatosi negli anni dei pantaloni a zampa d’elefante. Stupisce un’ironia crudele, a tratti politically incorrect, in particolar modo contro gli adolescenti e la cultura hippy. Quel genere di comicità che fa ridere proprio perché spietata e condita con un po’ di sano nonsense.

Nonostante la genialità espressiva e interpretativa di Johnny Depp nel ruolo del vampiro Barnabas Collins che dimostra la sua solita ed incontestabile bravura senza però dare nulla in più del pirata Jack Sparrow, nel film spiccano i ruoli femminili.

Eva Green nei panni della strega Angelique è sensuale e a proprio agio: gestisce lei il duetto con Johnny Depp, decidendone i ritmi con un personaggio che sembra esserle stato scritto addosso. Statuaria appare invece Michelle Pfiffer nei panni della capofamiglia senza scrupoli e pronta a tutto. La Bonham Carter – infatti citata a proposito nel nostro ultimo editoriale – tende a far ridere proponendo una psicologa alcolizzata che, pur distaccandosi dalla Bellatrix Lestrange potteriana, non può far a meno, di tanto in tanto, di cadere nel suo ruolo di caratterista di personaggi di indubbio gusto burtoniano. La rivelazione è, però, la giovanissima Chloe Moretz nei panni della quindicenne amorfa e disturbata Carolyn Stoddard. L’attrice, già vista in “Hugo Cabret” di Scorsese e in “Kick-Ass” di Matthew Vaughn, si inventa un personaggio difficile e lo interpreta con una perizia inaspettata per la sua età (classe 1997), conferendogli personalità, sagacia, ironia, cattiveria e, una certa dose di fascino, in un mix perfettamente bilanciato, conferma del già comprovato talento della ragazza.

Il film, nel complesso, scatena risate e qualche brivido e mantiene un buon ritmo per tutta la sua durata, mescolando buona musica, sesso, creature magiche, horror e nonsense. Il tutto riconfermando la bravura registica di Burton e – come già detto in apertura – svecchiandola senza tradirla.

Da vedere.

Simone Falcone

Vendicatori Uniti

TITOLO: “The Avengers”

REGIA: Joss Whedon

GENERE: Azione – Fantasy

DURATA: 140 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Mercoledì 25 aprile 2012

L’attesa è infine giunta al termine. “The Avengers” è finalmente uscito nelle sale di tutto il mondo e per milioni di appassionati (compreso il sottoscritto) è stato un evento imperdibile e, per fortuna, tutto fuorché deludente. Ma andiamo con ordine.

Il progetto di portare alcuni tra i più famosi supereroi della Marvel Comics sul grande schermo in un unico film affonda le sue radici nel 2008, quando nelle sale uscì “Iron Man”, film che ebbe inoltre il merito di riportare alla giusta ribalta Robert Downey Jr. ripescandolo dall’oblio.
Da allora, con un ritmo praticamente annuale, sono stati realizzati film in cui venivano presentati altri eroi che sarebbero entrati a far parte della squadra (con risultati a volte buoni, come nel caso di Capitan America, a volte meno, come nel caso di Thor); e finalmente, quest’anno, il regista e sceneggiatore Joss Whedon (creatore di serie tv cult come “Buffy – L’ammazzavampiri”) è riuscito, con eccellenti risultati, a far unire tutti questi eroi in un’unica grande pellicola.
Non nascondo di essere ancora molto emozionato ripensando alla visione di questo film perché, pur essendo un film commerciale, è stato realizzato splendidamente e non ha deluso sotto nessun punto di vista coloro che, come me, non vedevano l’ora di poter ammirare i loro super eroi preferiti combattere fianco a fianco tutti assieme.
Ogni cosa è curata nei minimi dettagli, a cominciare dalla trama, molto profonda e dettagliata, nella quale viene raccontato come i Vendicatori, superando screzi ed incomprensioni iniziali, devono unire le forze per affrontare un’orda di crudeli invasori alieni capeggiati da Loki, fratellastro di Thor e dio norreno degli inganni. Ogni personaggio è rappresentato in tutte le sue sfaccettature e ognuno trova il suo spazio all’interno della storia senza invadere quello degli altri.
Straordinari e sorprendentemente non esasperanti sono gli effetti speciali, con i quali è stato possibile rendere al massimo le scene d’azione più grandiose, come la battaglia finale in una Manhattan devastata dall’invasione.

Che dire quindi in conclusione? Non si può che essere contenti, che si sia appassionati dei fumetti originali o meno, di come queste icone siano state trattate sul grande schermo, e che la stagione supereroistica cinematografica del 2012 (che proseguirà quest’estate con gli altrettanto attesissimi “The Amazing Spider-Man” e “The Dark Knight Rises”) non poteva cominciare meglio di così.

Giacomo Buzzoni