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“La ragazza sul ponte”: una poesia visiva sulla Fortuna

<<Ora le racconto una storia. Tanto tempo fa, abitavo in una strada dalla parte dei numeri pari, al ventidue, e guardavo dalla finestra i numeri dispari, le case di fronte, perché credevo che la gente che ci viveva fosse più felice, che le stanze fossero più luminose, che le serate fossero più allegre. Ma le camere erano buie, le stanze più piccole, e i numeri dispari guardavano i numeri di fronte. Perché … pensiamo sempre che la fortuna sia ciò che non si ha.>> – Gabor.

“Quante volte mi chiamate, alzate la voce, vi arrabbiate, mi insultate, rimanete ad aspettarmi fino a notte, e ancora fino all’alba?
Quanti altari avete alzato per me, nei secoli, ditemi, di quante preghiere sono piene le mie orecchie?
E io. Io che dovrei sentirmi lusingata e correre da voi, da tutti voi. Siete così tanti …
Eppure, quanti corrono da me? Quanti mi vengono a cercare? Molti meno.
A volte, mi trovo proprio lì dove siete, vi basterebbe allungare le dita …
… come su quel ponte, quella sera: io c’ero.

Lei era una ragazza che credeva di non aver più nulla da perdere, se non un po’ di quota, per atterrare nell’acqua, giù dal ponte; lui, un lanciatore di coltelli spiantato e dimenticato dal mondo.
Due persone che, ognuna per sé, mi avevano cercata a lungo.

E io, io sono la Fortuna.”

Così li ha fatti incontrare, la dea bendata, su un ponte, col fumo che esce dalla bocca e il freddo dentro: Adèle, una Vanessa Paradis fatta apposta per la parte e Gabor, eccentrico lanciatore di coltelli che è valso un César al suo interprete, Daniel Auteuil.
Fuori dal tempo e dalla realtà, la Fortuna li ha messi insieme dietro la macchina da presa di Patrice Leconte, che con questo film (datato 1999) ritorna allo splendore delle sue origini.
L’audacia di un bianco e nero misterioso, di ombre e luci che giocano con gli occhi in una danza delicata da “neo-nouvelle vague” – del resto, non bisogna dimenticare che l’autore ha collaborato coi Cahiers du Cinéma, emblema della “nuova ondata”, a loro tempo.

L’indecisione, l’entusiasmo, la paura-desiderio e il viaggio corrono lungo tutta l’ora e mezzo della pellicola.

Lei, sognatrice disillusa, romantica libertina, che diviene bersaglio del lanciatore di coltelli e lui, che non sa come possa essere, ma quella ragazza gli ha portato un bagaglio di fortuna insperato.
E l’acqua, silenziosa quarta protagonista che, luce ed ombra, svela e cela, quasi come in un moderno “Atalante”.

Il dramma, la corsa, gli applausi frastornanti, la forza delle lame che sibilano verso il corpo di Adèle, perfino l’elegante erotismo che avvolge la protagonista, si stemperano in una delicatezza da sogno, da sospensione su una corda in levare, in un equilibrio di colori in bianco e nero, che riempiono di suggestione anche il mondo del circo, di natura policromo, che ci appare comunque sgargiante, misterioso, profumato di cipria e così brillante tra la polvere del teatro e dei ricordi di una donna che un tempo (vite precedenti?) aveva amato Gabor: “ ti ho cercato ovunque all’inizio, in ogni città […], per mesi ho fermato per strada uomini che ti assomigliavano, poi ho preso delle pillole, mi sono sposata, due volte … no, tre volte, ora non so.”
La vita “prima” è solo lasciata trapelare, in una foschia che ci mantiene alla giusta distanza dai protagonisti perché essi possano esaltare al meglio il loro fascino, un po’ come quel telo bianco, dalle morbide pieghe, che in un attimo iterato, tre, quattro, cinque volte lo stesso, con inquadrature differenti –un singhiozzo, una scarica di flash, copre il corpo di lei, sulle note del magistrale leitmotiv del film, “Who will take my dreams away”, firmato Marianne Faithfull.

Sospiri dietro il velo: di piacere, di sottile paura piena di desiderio.

E occhi, prima quelli di lei, subito in apertura, grandi e tristi, “lontani”, che colpiscono così tanto il lanciatore: “ ma la guardi, con due occhi e un culo simili, lei si butterebbe in acqua?”, chiede Gabor ad una comparsa. Poi quelli di lui, concentrati sotto sopracciglia aggrottate, seri, “terreni”.
Occhi sotto cui (per cui, grazie a cui) rinascere, sotto i quali danzare tra lame di polvere e sole e fra le altre, vere, affilate, in movenze quasi da amore carnale (surrogato di? Sublimazione di?). Certo perfetto per la protagonista, giovane ai limiti della ninfomania, che però non mostra mai apertamente desiderio fisico per il suo compagno di avventura, di un sogno reale che guarisce, purifica, migliora, trova perdendo per il mondo, tra la Francia e l’Italia, la Grecia e la Turchia.
Due elementi di una reazione chimica che chiama la Fortuna, così indagata e cercata lungo tutto il film: “ la fortuna, quella vera, l’ho vista passare, ma da lontano, quella degli altri, a me mancava sempre un pezzo.” E dopo questa confessione, Gabor unisce con un gioco di prestigio due metà di una banconota spezzata.
Come quella banconota, loro sono due metà che non possono che stare unite, come mostra la sfortuna che li coglie non appena si separano; e i dialoghi, botta e risposta, discorsi a distanza che volano sopra la gente e arrivano al destinatario, in un altro posto, tra altri muri, tra altri odori.
E quel ritrovarsi alla fine, questa volta a parti invertite, lui quasi giù da un ponte, e lei che passava di lì; il darsi del “tu”, solo ora, per la prima volta; quell’abbraccio vero, fisico, il primo così reale, di nuovo ripetuto –tre, quattro, cinque volte, braccia e viso nell’incavo del collo, e forse quel profumo che solo dopo essersi persi, ci si accorge di quanto fosse mancato …
Braccia, e viso nell’incavo del collo, tre, quattro, cinque volte allo stesso modo. Un singhiozzo, una scarica di flash.

“Io sono qui, su questo ponte, vicino a voi, vi basterebbe allungare le dita”. Dice la Fortuna.

E l’acqua sotto. L’acqua che guarda, testimone silenziosa, sempre uguale, sempre “la stessa”. L’acqua che scorre e tutto vede, e sempre racconterà.

Letizia Chiodini

Il rozzo materiale del volere: Cronenberg legge Burroughs

“Seguaci di obsoleti impensabili commerci, scarabocchiati in etrusco, dipendenti da droghe non ancora sintetizzate, gente del mercato nero della Terza Guerra Mondiale, praticanti di assurde sensitività telepatiche, osteopati dello spirito…”

Folle, allucinato, chiaro nella sua insensatezza, ripugnante, ispirato: solo cinque degli aggettivi che possono descrivere questo film, che nel 1991 assorbì i giorni di David Cronenberg, regista poliedrico e immaginifico.

Il Pasto Nudo si consuma in compagnie esotiche ed inusuali, condito di Polvere Gialla e contornato di Carne Nera. Nella solitudine di una camera sulle coste nordafricane, Bill Lee, abituale “giocatore” di Guglielmo Tell e involontario assassino della moglie, incomincia il suo viaggio nell’ Interzona Incorporati. La realtà si miscela con gocce sempre più rade al delirio del tossicodipendente protagonista, scrittore accompagnato da una Clark Nova, “la migliore macchina per scrivere rapporti sulla vita nell’Interzona”. Oggetto di lavoro nella sobrietà, scarafaggio gigante negli altri momenti, rammenterà con la sua bocca tanto somigliante ad un ano, la missione di Bill: scoprire la vita di agenti nemici; infiltrarsi nella casa di una donna, Joan, omonima e identica alla moglie morta; lasciarsi attrarre lungo un viaggio letterario, mentre le mani di lei accarezzano sensualmente i tasti di una macchina per scrivere dai connotati perversi di un essere ermafrodita. Mugwump, esseri mostruosamente alieni si mescolano alla popolazione umana, in questo lontano confine di una Tangeri trasfigurata da una mente sconvolta dalle droghe che si scopre, o rievoca, tendenze omosessuali, allucinazioni di sadismo, reminescenze della precedente vita a New York, quando la moglie c’era ancora e Bill si guadagnava le giornate con un lavoro da disinfestatore.

William Burroughs scrisse, e scrisse con la foga di un protagonista senza regole, scrisse un romanzo che non voleva farsi capire, pretenzioso e presuntuoso. Scrisse di indicibili mutilazioni dello spirito; di un incubo; di “venditori di incubi squisiti e di nostalgie essiccate su cellule sature e malate di droghe sconosciute, barattate con il rozzo materiale del volere”; di arte. Di arte che distrugge, di come l’artista diventi folle e di come cada in un circolo vizioso: la difficoltà di creare annienta e quando si è annientati creare è un dolore. E finalmente … Amnexia, un posto dove entrare richiede una prova, dove Joan (o la sua reincarnazione) muore di nuovo, dove l’elaborazione del lutto arriva allo stadio finale, dove ricomincia l’illusione. Finirà mai?

Cronenberg ha saputo dare occhi alle parole dell’autore, fedele, ma non troppo, non al parossismo: perfetto, inquietante oltre Lynch. Non è un film che possano gustare tutte le bocche, “non si capisce”, qualcuno dirà, è vero. Ma non vuole essere capito. Vuole essere guardato. Ad alcuni capiterà di interromperlo a metà, forse presi dallo sconforto o dall’insensatezza. Perché no? In fondo, sembra dirlo anche Bill, parlando ai suoi amici: “arrivate dove volete, purchè lo facciate con dolcezza”.

Si può provare, ci si può sedere su una poltrona davanti alla televisione ed aspettare che ci raccontino la loro ispirazione, questi “bevitori di fluido pesante sigillato in traslucente ambra di sogni”.

Letizia Chiodini

Circe ha conquistato il mondo…e ne ha fatto il suo porcile

<<E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.>>

da P.P.Pasolini, “Supplica a mia madre”

<<Che cosa immensa, e curiosa, il mio amore […].
Una cosa veramente unica.
Da non potermene mai un istante liberare, neanche dal pensiero.
Non è una cosa che capita nascendo, vivendo: no.
Insomma, non c’è in essa niente di naturale.>>

da P.P.Pasolini, “Porcile”

Più cuore che testa, per ‘Questo’ Julian Klotz (ex Julian Klotz), nato dalla creatività teatrale di Pier Paolo Pasolini, che vive dentro di sé, dentro le sue parole così perfettamente ritmate e, talvolta, rimate, in una filosofia ingessata nel corpo rigido;
più cuore che testa o, forse, niente testa, perché <<io non ho opinioni. Ho tentato di averne e ho fatto, in conseguenza, il mio dovere. Così mi sono accorto che anche come rivoluzionario ero conformista>>.
La triste verità di una tragedia che non esploderà mai, di un eroe che non agisce, dell’inferno di un peccatore che fa del peccato la sua santità.
Il titolo non è il luogo fisico in cui questo protagonista apatico eppure così affamato si trascina per saziare le sue anime contrastate, per unificarle sotto una sola bandiera – quella di un amore innaturale nella natura – , ma quello metafisico di una società che si nutre di tutto, una società cui appartengono un padre, padrone di un impero economico e Ida, giovane innamorata che si lascia divorare dalla causa per la pace.
Questo non-eroe vive in modo troppo misterioso, fa poesia della sua vita, e il mondo d’oggi non può tollerarlo, non può che cibarsene, inglobandolo, rendendolo parte di sé. In effetti, la società del 1967 (in cui va in scena la prima di “Porcile”) sta cambiando, e tra non molto, l’omologazione globale sconvolgerà le carte in tavola, le mischierà, così che non sarà più chiaro quanto i borgatari siano diversi dai pariolini.
Ciò nell’Italia di Pasolini, ma la Germania di Bonn?
<<La Germania di Bonn non è certo la Germania di Hitler, si fabbricano lane, formaggi, birra e bottoni, […]. La madre assassina. Lei ebbe figli obbedienti, con gli occhi azzurri, pieni di tanto disperato amore. Mentre io, io, madre affettuosa, ho questo figlio che non è né obbediente, né disobbediente>>.
Con queste parole comincia il film tratto dallo spettacolo, vergate su una lapide, epitaffio sulla tomba di un mondo che sta nascendo. Cannibale legittimato, mangia la sua prole senza processo, con una sola sentenza, incisa su pietra: <<interrogata ben bene la nostra coscienza, abbiamo stabilito di divorarti, a causa della tua disobbedienza>>.
La Germania è una madre, dunque, i cui figli sono causa di sofferenza perché non un estremo né l’altro, e insieme essa è una giuria inappellabile che l’estremo condanna.
Ed è questo ciò di cui lamenta Klotz padre, un umanista che pure crede che un giorno solo la tecnica meriterà importanza e che si unisce in società economica con il rivale Herdhitze, letteralmente brace ardente, ex nazista nostalgico di quei <<tempi d’oro>>.
Nei loro discorsi continuano a ricorrere i termini ‘maiale’, ‘grugnito’, e il loro brindare alla nuova alleanza economica non è che un grufolare.
Qualche patteggiamento ci deve essere stato tra i due così diversi e così platealmente invisi l’uno all’altro …
Sì, una storia di maiali, per una di Ebrei. Klotz è a conoscenza delle efferatezze compiute dal compagno (per le quali, tra l’altro, egli è costretto a nascondersi sotto una plastica facciale), e il compagno è a conoscenza della zooerastia del giovane rampollo di Klotz.
Un duplice ricatto tra uomini di potere.
<<Ed eccoci veramente al punto in cui pare che per lei sia impossibile dire e per me ascoltare>>, sono le parole del padre di Julian alla scoperta di ciò che lui già sa, anche solo inconsciamente, nel momento in cui, insieme alla moglie, rievoca i dipinti dei maiali di Grasz. Epoca molto attuale.
Tutto è poesia in forma dialogica; tutto è dialogo in forma poetica.
Tutto è discorso ma, in fondo, silenzio.
Anche nelle parole di Baruch Spinoza, che appare redivivo agli occhi di ‘Questo’ Julian, c’è il silenzio di un’abiura: l’abiura verso le sue stesse parole, immortalate nell’Ethica, perché <<nate da un mondo che avrebbe prodotto, alla fine, il tuo padre umanista e il suo socio tecnocrate>>. E’ vero, dice il filosofo <<la ragione mi è servita a spiegare Dio, ma una volta che, spiegato Dio, la ragione ha esaurito il suo compito, deve negarsi: non deve restare che Dio, nient’altro che Dio>>. Il Dio che vede in Julian, un Dio che mai consola e che porta il giornalista Arcangelo Sacchetti a vedere questa riflessione così vicina alla dialettica dell’Illuminismo, dove Horkheimer e Adorno studiano il <<nucleo genetico delle principali categorie che strutturano il corso della civiltà occidentale>>.
Più cuore che testa, per questo Julian che doveva <<entrare nella vita, per evitarla>>, che ne cercava una <<pura, solo … bella o terrorizzante … senza mai mezzi termini>>.
Sono le ragioni del cuore, espresse con la ragione del suo discorso filosofico, a condurlo di nuovo verso il porcile, per un’ultima unione d’amore in cui annullarsi: perché è meglio farsi sbranare dai veri maiali, piuttosto che lasciarsi assimilare dai maiali-persone rappresentati dall’ordine borghese …
… E così, ‘Questo’ Julian (ex-Julian) ce lo siamo mangiato tutto, non ne è rimasto nemmeno un dito, nemmeno un bottone; e ora vive un po’ in lui, quel porcello là in fondo, e in lei, la scrofa che allatta, e in ognuno dei suoi porcellini. Perché in fondo, che si nasca maiali, o uomini, la grande Circe che è questa società del 1967, ci rende tutti uguali e, alla fine, non fa differenza da chi ci facciamo sbranare.

<<Nella facilità dell’amore
il miserabile si sente uomo:
fonda la fiducia nella vita, fino
a disprezzare chi ha altra vita.>>
da P.P.Pasolini, “Sesso, consolazione della miseria!”

Letizia Chiodini

La religione dell’attore

“Che cos’è, per te, essere attore?”
“Correre per raggiungere la linea dell’orizzonte”.
Riszard Cieslak.

Quanto può essere difficile interpretare una parte? Essere attore: prove in un teatro che profuma di legno e polvere, copione, sipario, musiche, luci, luci …
E c’era, la luce, quel giorno in cui Rena Mirecka intraprese il viaggio verso una casa in mezzo alla foresta, coi compagni del Teatro Laboratorio. Aveva appena finito di piovere, l’aria sapeva di terra e il sole filtrava tra i rami gocciolanti. Si disse che quella luce l’avrebbe guidata, avrebbe condotto tutti sulla strada giusta.
Rena era un’attrice e Jerzy Grotowski il suo insegnante.
Lei non era l’unica a sentire la poesia, la tensione dell’attimo che giunge all’ispirazione. Essere attori è fatica, è corpo, è ricordo. Non è testo, né scenografia. Il teatro è “povero”, come il maestro lo intitolò in un suo trattato; è incontro, “ la vicinanza dell’organismo vivo: ecco il solo elemento di cui il teatro non può essere defraudato.” Esso è esperienza di vita che va oltre l’estetica, è un lavoro su di sé, una dialettica spirituale tra “chi fa” e “chi osserva”.
Pensate ad un sacerdote che parla ai suoi fedeli, l’estasi della cerimonia, l’invocazione di ciò che esiste in ogni uomo e che egli nasconde, lì davanti agli occhi dell’adepto.
Il Rito.

Come può non essere tale, l’inizio del capolavoro di Grotowski, Il Principe Costante, di Calderòn de la Barca e riscritto dall’autore polacco, Slowacki?
La storia narra di un principe portoghese, Don Fernando, che preferisce morire piuttosto che vedere l’isola di Ceuta, emblema della cristianità, cadere nelle mani dei Mori musulmani. Don Enrico, suo fratello, ha concordato che proprio la conversione dell’isola sia il pegno da pagare per la vita del giovane.
Il Principe è costante nella propria fede, ma il contrasto storico- religioso non sembra importare poi granché al regista, che intende mettere in evidenza il quadro sociale di violenza e sopraffazione che soffocano l’individuo rimasto solo. Anche la scena di Grotowski è divisa in due, ma non troviamo da un lato i cristiani e dall’altro gli islamici: ci sono coloro che sono pronti a farsi assimilare, di non importa quale fede, scissi al loro interno da tensioni sentimentali, e il protagonista, nella solitudine di chi ha scelto una via spirituale irrevocabile.
La scena, il Rito con cui si apre la Funzione, non è presente nel testo originale.

Gli spettatori sono entrati in sala, vengono ripartiti sui tre lati di una palizzata rettangolare, solo le loro teste sporgono dall’alto e i loro occhi stupiti guardano giù, verso quella pedana in legno – tavola operatoria, o altare sacrificale- all’interno di un’area che è arena.
Lo Schiavo è in scena, bianco tra i neri, trascinato verso la pedana. Torture delicate, quasi invisibili sul suo corpo seminudo, che richiama esplicitamente alla memoria la “Lezione di anatomia del dottor Tulp”, di Rembrandt. Impercettibili carezze che lo fanno sussultare e contorcere, fino al culmine di quel lungo bacio sulle labbra, datogli dal generale Muley, in una sensualità che, come sottolinea il teorico Roberto Alonge, è violenza, stupro. Tra le otto braccia che impongono “l’orribile potere dispotico” sull’indifeso, ci sono anche quelle di Fenice, che castra il prigioniero. Non sono questi gesti celati a colpire più di tutto lo spettatore allibito, ma quello subito precedente, compiuto dal re, che alzando la mano chiusa a pugno ne decreta l’esecuzione, e quello immediatamente successivo, che vede Tarudante agguantare brutalmente l’uomo per le gambe, spogliarlo e rivestirlo con l’abito nero che anch’egli indossa. Lo Schiavo è ora assimilato alla società dominante, fagocitato dalla maggioranza, privato – attraverso l’atto della castrazione- della sua individualità. Non a caso, l’attore che interpreta questa parte, sarà lo stesso a rappresentare Don Enrico che, mentre per Calderòn si trova in una situazione di necessità (vendere un ideale per salvare il fratello), qui rappresenta l’emblema della corruzione sociale. Questa sequenza proemiale è fondamentale per capire il seguito: il successivo ingresso, di Don Fernando, si connoterà come quello di un Secondo Prigioniero. Grotowski raddoppia, per valorizzare al massimo la variante personale del Principe: lo Schiavo cede e si integra, il Principe, no. Egli è costante. L’essenza di questo spettacolo, basato su un copione ridotto, sulla forza del corpo e dei gesti, è l’affinamento, fino alla “luminosità”, della ricerca sul corpo dell’attore protagonista, Ryszard Cieslak, il più celebre degli artisti del maestro.
Fu lunga e operosa la preparazione di questo spettacolo, che andò in scena nel 1965 in Polonia, terra del maestro e degli interpreti, e luogo di nascita del Teatro Laboratorio.
Grotowski aveva un rapporto molto stretto con i suoi attori: “Il testo parla di torture, di dolori, di un’agonia. Il testo parla di un martire che rifiuta di sottomettersi a leggi che egli non accetta. […] Ma nel mio lavoro di regista con Ryszard Cieslak, non abbiamo mai toccato niente che fosse triste. Tutta la parte è stata fondata su un tempo molto preciso della sua memoria personale legata al periodo in cui era un adolescente ed ebbe la grande esperienza amorosa. Tutto era legato a quell’ esperienza. Essa si riferiva a quel tipo di amore che, come può succedere solo nell’ adolescenza, porta tutta la sua sensualità, tutto quello che è carnale, ma, nello stesso tempo, dietro a questo, qualcosa di totalmente differente che non è carnale, o che è carnale in un altro modo, e che è molto più come una preghiera. È come se, tra questi due aspetti, si creasse un ponte che è una preghiera carnale.”

Rena cercava la strada che potesse essere un cammino per tutti loro: da ciò capiamo anche la potente unione tra gli attori, e tra essi e il loro lavoro. Un’assistente del regista, Stefania Gardecka, raccontò di come Cieslak si infuriò alla scoperta di un berretto rosso, rovinato da lei per sbaglio su una lampada: disse che aveva bruciato il sudore e la fatica del loro apprendimento.
Una “religione”, dunque, con le sue “reliquie”, un teatro per cui “immolarsi”. La stessa donna ricordò l’atmosfera sacra di silenzio, il giorno in cui, morto Riszard, ne portarono le ceneri in teatro. Le appoggiarono sul drappo rosso usato nel “Principe Costante”. Un Rito, quindi, per qualcuno che a quel teatro aveva dato più del solo corpo. Disse Grotowski: “ a lui ( a Cieslak) ho domandato tutto, un coraggio in un certo modo inumano […]Abbiamo solo lavorato lentamente.” Insieme, con la fiducia reciproca. E dopo “ non aveva paura, e si è visto che tutto era possibile perché non c’era paura”.

Letizia Chiodini

“IL GABBIANO”: SIMBOLO DI UNA REALTA’ SOGNATA

”La vita bisogna rappresentarla non così com’è,
e nemmeno come deve essere,
ma come ci appare nei sogni”.
Anton Cechov.

1896. ANTON CECHOV siede nella platea del teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo. Ha 36 anni, una passione e un desiderio: aprire le porte dell’Europa al suo teatro. Il pubblico è in silenzio, il sipario si è appena aperto, in scena un uomo e una donna. Lui le chiede perché sia sempre vestita di nero, lei si volta, è giovane, bella. “E’ il lutto per la mia vita”.
Questa è la battuta che consacra l’inizio de “Il gabbiano”, quattro atti di incomprensione, ricerca, scontro, arte. Lotta contro e per l’Arte. Nessuna personalità a dominare. Nessun vincitore. Tutti vinti. Da chi? Da che cosa?
Secondo atto: l’agitazione tra il pubblico cresce, Cechov si irrigidisce sulla sua sedia. Possiamo immaginare i suoi pensieri, un’altalena tra sconforto e desiderio, desiderio di arrivare alla fine, di ricevere un applauso che consacrerà il suo dramma. Del resto non può andare così male.
Vera Kamissarzhevskaya, che impersona Nina, è una delle attrici migliori di Russia, ma la tensione e i commenti degli astanti la intimidiscono al punto da farle perdere la voce.   Non può andare così male …
Andrà anche peggio.
Il drammaturgo si alza, mentre il brusio si fa insopportabile,  si rifugia dietro le quinte. Scappa. Non teme il linciaggio, semplicemente perché non è da temere, ora è il suo stesso dramma a terrorizzarlo.
A questo punto possiamo vederlo avviarsi solo verso il suo alloggio e decidere: “Non scriverò mai più per il teatro”.
E per due anni la sua penna non si poserà sulla scena. Ma che cosa ha infervorato tanto il pubblico prima e la stampa poi?
La sua storia è un mosaico di situazioni ed eventi, di personaggi che prendono la parola, che si “svuotano”, senza consolarsi, annegati nell’atmosfera di silenzio teso di una campagna russa. Quella Russia che spaventa tanto Cechov, dove il “piccolo uomo” si perde nella vastità dello spazio.
Qui vive Konstantin, giovane cupo e ispirato, scrittore che soffre la natura della sua stessa arte. Sta per rappresentare un dramma da lui inventato nel giardino della villa dello zio. Eppure afferma “Io odio il teatro”. E’ chiaro, lui odia le forme convenzionali, non sopporta l’eccesso di una madre attrice, Irina, gonfia esponente di un palcoscenico grandattoriale, non sopporta la banalità di un’arte che pretende di “pescare una morale piccola, facile […] di uso comune”. Kostja vorrebbe essere un innovatore, ma è un “borghesuccio di Kiev”, di questo lo accusa Irina durante un litigio, quasi come se fosse una colpa.
Kostja attraversa il dramma come in un sogno dal quale non riesce a destarsi: dal suo piccolo spettacolo dai connati simbolisti ai suoi ultimi scritti, pieni di immagini e rimandi. E il simbolismo è la via che Cechov vuole indagare: non avrà dimenticato i giorni trascorsi a Parigi, nel 1891, e i giovani d’avanguardia che volevano cambiare il mondo: e kostja è giovane, intelligente, vero “simbolo del simbolismo”. Esso è nel titolo, in quell’uccello morto che il ragazzo getta per capriccio ai piedi dell’amata, Nina, che lo sta dimenticando. Lui ha ucciso il gabbiano come un giorno farà con se stesso, dice.
Trigorin, amante di Irina, e con lei immagine del mondo da cui Kostja vorrebbe scappare, seduce la giovane Nina, portandola con sé piena di promesse e condannandola ad una vita infelice.
Eppure questa non è una storia di amori non corrisposti, non è la tristezza della bella ragazza, Masha, che celebrava il lutto per la sua vita e che finisce con lo sposare un uomo che non desidera. E’ una storia di letteratura, di arte, di sogni, e se non possiamo dare ad essi nuove forme, “allora niente, meglio niente”.
Né Kostja né nessun altro personaggio è esponente del pensiero dell’autore, almeno, secondo gli studi. Di certo si può dire che Cechov sia stato fedele all’affermazione della sua creatura: il pubblico fischia, lui posa la penna. “Niente, meglio niente”.

1898, Mosca. Il simbolo di un gabbiano è pronto ad accogliere gli spettatori del Teatro d’Arte di Stanislavskij e Nemirovic- Dancenko. Il diciassette dicembre è appena passato, ed è stato un clamoroso successo. Dancenko vide lontano e fu ardito nella sua decisione di chiamare un drammaturgo che non voleva più considerarsi tale ad esibirsi presso il suo teatro. Gli applausi dimostrano a Cechov e ai suoi personaggi senza via d’uscita che potevano essere amati.
La campagna russa non divenne più calda, e il volo del Gabbiano in Europa fu l’approdo al continente di cui Cechov aveva parato: un luogo contrario alla sua terra, dove l’uomo va in malora perché soffocato dai claustrofobici spazi.
Ma in Europa si posò e vi rimase, e vi rimane tutt’ora, rappresentato dai registi di tutti gli Stati.

1969. Il pubblico applaude alla regia di Orazio Costa Giovangigli e ai giovani e bravi attori Gabriele Lavia e Ilaria Occhini. Una telecamera fissa l’interpretazione.

2012. Una giovane studentessa di teatro rimane oltre due ore a guardare, senza staccare gli occhi, il risultato di quella ormai vecchia pellicola. Ci penserà per una notte intera, siederà in platea accanto al drammaturgo, contemplando lo spettacolo, gli interpreti, l’atmosfera di una Russia lontana. Alla fine applaudirà, non come uno spettatore educato, ma come uno appassionato. E il sipario sarà calato…
… fino alla prossima sera.

Letizia Chiodini