<<Ora le racconto una storia. Tanto tempo fa, abitavo in una strada dalla parte dei numeri pari, al ventidue, e guardavo dalla finestra i numeri dispari, le case di fronte, perché credevo che la gente che ci viveva fosse più felice, che le stanze fossero più luminose, che le serate fossero più allegre. Ma le camere erano buie, le stanze più piccole, e i numeri dispari guardavano i numeri di fronte. Perché … pensiamo sempre che la fortuna sia ciò che non si ha.>> – Gabor.
“Quante volte mi chiamate, alzate la voce, vi arrabbiate, mi insultate, rimanete ad aspettarmi fino a notte, e ancora fino all’alba?
Quanti altari avete alzato per me, nei secoli, ditemi, di quante preghiere sono piene le mie orecchie?
E io. Io che dovrei sentirmi lusingata e correre da voi, da tutti voi. Siete così tanti …
Eppure, quanti corrono da me? Quanti mi vengono a cercare? Molti meno.
A volte, mi trovo proprio lì dove siete, vi basterebbe allungare le dita …
… come su quel ponte, quella sera: io c’ero.
Lei era una ragazza che credeva di non aver più nulla da perdere, se non un po’ di quota, per atterrare nell’acqua, giù dal ponte; lui, un lanciatore di coltelli spiantato e dimenticato dal mondo.
Due persone che, ognuna per sé, mi avevano cercata a lungo.
E io, io sono la Fortuna.”
Così li ha fatti incontrare, la dea bendata, su un ponte, col fumo che esce dalla bocca e il freddo dentro: Adèle, una Vanessa Paradis fatta apposta per la parte e Gabor, eccentrico lanciatore di coltelli che è valso un César al suo interprete, Daniel Auteuil.
Fuori dal tempo e dalla realtà, la Fortuna li ha messi insieme dietro la macchina da presa di Patrice Leconte, che con questo film (datato 1999) ritorna allo splendore delle sue origini.
L’audacia di un bianco e nero misterioso, di ombre e luci che giocano con gli occhi in una danza delicata da “neo-nouvelle vague” – del resto, non bisogna dimenticare che l’autore ha collaborato coi Cahiers du Cinéma, emblema della “nuova ondata”, a loro tempo.
L’indecisione, l’entusiasmo, la paura-desiderio e il viaggio corrono lungo tutta l’ora e mezzo della pellicola.
Lei, sognatrice disillusa, romantica libertina, che diviene bersaglio del lanciatore di coltelli e lui, che non sa come possa essere, ma quella ragazza gli ha portato un bagaglio di fortuna insperato.
E l’acqua, silenziosa quarta protagonista che, luce ed ombra, svela e cela, quasi come in un moderno “Atalante”.
Il dramma, la corsa, gli applausi frastornanti, la forza delle lame che sibilano verso il corpo di Adèle, perfino l’elegante erotismo che avvolge la protagonista, si stemperano in una delicatezza da sogno, da sospensione su una corda in levare, in un equilibrio di colori in bianco e nero, che riempiono di suggestione anche il mondo del circo, di natura policromo, che ci appare comunque sgargiante, misterioso, profumato di cipria e così brillante tra la polvere del teatro e dei ricordi di una donna che un tempo (vite precedenti?) aveva amato Gabor: “ ti ho cercato ovunque all’inizio, in ogni città […], per mesi ho fermato per strada uomini che ti assomigliavano, poi ho preso delle pillole, mi sono sposata, due volte … no, tre volte, ora non so.”
La vita “prima” è solo lasciata trapelare, in una foschia che ci mantiene alla giusta distanza dai protagonisti perché essi possano esaltare al meglio il loro fascino, un po’ come quel telo bianco, dalle morbide pieghe, che in un attimo iterato, tre, quattro, cinque volte lo stesso, con inquadrature differenti –un singhiozzo, una scarica di flash, copre il corpo di lei, sulle note del magistrale leitmotiv del film, “Who will take my dreams away”, firmato Marianne Faithfull.
Sospiri dietro il velo: di piacere, di sottile paura piena di desiderio.
E occhi, prima quelli di lei, subito in apertura, grandi e tristi, “lontani”, che colpiscono così tanto il lanciatore: “ ma la guardi, con due occhi e un culo simili, lei si butterebbe in acqua?”, chiede Gabor ad una comparsa. Poi quelli di lui, concentrati sotto sopracciglia aggrottate, seri, “terreni”.
Occhi sotto cui (per cui, grazie a cui) rinascere, sotto i quali danzare tra lame di polvere e sole e fra le altre, vere, affilate, in movenze quasi da amore carnale (surrogato di? Sublimazione di?). Certo perfetto per la protagonista, giovane ai limiti della ninfomania, che però non mostra mai apertamente desiderio fisico per il suo compagno di avventura, di un sogno reale che guarisce, purifica, migliora, trova perdendo per il mondo, tra la Francia e l’Italia, la Grecia e la Turchia.
Due elementi di una reazione chimica che chiama la Fortuna, così indagata e cercata lungo tutto il film: “ la fortuna, quella vera, l’ho vista passare, ma da lontano, quella degli altri, a me mancava sempre un pezzo.” E dopo questa confessione, Gabor unisce con un gioco di prestigio due metà di una banconota spezzata.
Come quella banconota, loro sono due metà che non possono che stare unite, come mostra la sfortuna che li coglie non appena si separano; e i dialoghi, botta e risposta, discorsi a distanza che volano sopra la gente e arrivano al destinatario, in un altro posto, tra altri muri, tra altri odori.
E quel ritrovarsi alla fine, questa volta a parti invertite, lui quasi giù da un ponte, e lei che passava di lì; il darsi del “tu”, solo ora, per la prima volta; quell’abbraccio vero, fisico, il primo così reale, di nuovo ripetuto –tre, quattro, cinque volte, braccia e viso nell’incavo del collo, e forse quel profumo che solo dopo essersi persi, ci si accorge di quanto fosse mancato …
Braccia, e viso nell’incavo del collo, tre, quattro, cinque volte allo stesso modo. Un singhiozzo, una scarica di flash.
“Io sono qui, su questo ponte, vicino a voi, vi basterebbe allungare le dita”. Dice la Fortuna.
E l’acqua sotto. L’acqua che guarda, testimone silenziosa, sempre uguale, sempre “la stessa”. L’acqua che scorre e tutto vede, e sempre racconterà.
Letizia Chiodini