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E poi, Paulette…

Quanti di noi, soprattutto tra i giovani, non prendono in considerazione quanto le generazioni più anziane possano esserci d’aiuto?

Lo so penserete che questa sia la solita filippica sociale noiosa all’insegna di frasi trite e ritrite come “aiutiamo gli anziani”. Beh no, è molto diverso.

Per caso di recente mi è passato sotto mano E poi, Paulette (Einaudi Editore, 2012) della francese Barbara Constantine; un genere di romanzo che in periodi come questi, caratterizzati da profonda solitudine sociale, può davvero costituire un’ancora di salvezza.

La storia di Ferdinand non punta semplicemente a toccare le corde dell’animo di chi legge, cosa che potrebbe fare un qualsiasi librucolo dai temi smielati approfittando dei soliti temi emotivamente validi, ma anzi va ad appassionare il lettore con un vortice di storie diverse, che partono tutte divise l’una dall’altra per poi finire a concentrarsi in un unico grande nucleo finale.

Bambini, adolescenti, anziani, asini, gatti, cani e topi sanno fare da sfondo alle appassionate vicende che si svolgono all’interno della fattoria del vecchio Ferdinand. Cornelius arriva addirittura a sembrare un animale che non sfigurerebbe all’interno di “Alice nel paese delle meraviglie”, ma nonostante ciò la Constantine tiene sempre ben saldi al suolo i piedi della storia, ambientandola in una Francia che a giudicare dalle fredde e avverse condizioni climatiche potremmo localizzare come la zona prossima alla Manica.

Questa storia affascina anche per un certo richiamo ai grandi agronomi latini, sostenitori della cellula autoproduttiva: in queste vesti ritroviamo la simpatica Marceline, povera contadinella dalle più svariate conoscenze ortofrutticole che riesce a sfamare sé e il resto della fattoria attraverso la sola coltivazione del suo orto, ma che al contempo diventa il pilastro portante della “grande famiglia” assieme a Ferdinand, con il quale riesce ad avere un’incompiuta storia d’amore che non riuscirà mai a suggellarsi con un vero ed appassionato bacio, ma solo con esitazioni adolescenziali totalmente estranee a dei sessantenni.

Barbara Constantine in questo libro inoltre opera la singolare scelta di eliminare i dialoghi canonici, come ce li hanno fatti conoscere i grandi scrittori della letteratura, ma decide di confondere il lettore andando a neutralizzare quella che è la specificità dei differenti dialoganti all’interno del libro, di modo che chi legge sia sempre profondamente affascinato dal riuscire a capire chi sta parlando nonostante questo non sia mai specificato.

Ludovico Barletta

Paradigma dell’italiano!?

La figura di Alberto Sordi è stata spesso sottovalutata od analizzata sotto una lente in parte errata e superficiale. Troppo spesso se ne parla come un semplice attore comico. I film di Sordi si possono sostanzialmente dividere in due grandi filoni: quelli comici nazionalpopolari e quelli tragici.

Alla prima delle due categorie appartengono la maggior parte dei suoi film; in particolar modo meritano Il marchese del grillo nel quale l’attore romano veste i panni di un marchese disinibito e trasgressivo nella Roma a cavallo tra Settecento e Ottocento, nel quale si può scorgere molto bene il carattere del romano sempre strafottente e burlone con tutti i toni grotteschi del caso.

Un film molto importante nella sua filmografia, e poco legato alla pura italianità, è Finché c’è guerra c’è speranza nel quale ha reso molto bene il grande problema dell’inconciliabilità di una professione immorale, ovvero quella del trafficante d’armi, con quello di una famiglia viziata da un consumismo dilagante: magistrale resta l’ultima scena, resa molto bene da inquadrature molto intense e significative,  nella quale davanti all’accusa della moglie e dei figli di essere un “mercante di morte” spiega come in verità la colpa di mestieri come il suo non stia tanto nell’immoralità della singola persona che professa quel mestiere, quanto in una società che non si accontenta mai di ciò che ha.

Per quanto riguarda il secondo filone, assai poco nutrito, vi sono solo due film degni di nota, nei quali però Sordi risulta impacciato: Un borghese piccolo piccolo nel quale veste i panni di un padre che accontentatosi di una vita mediocre ripone tutte le sue speranze nel figlio, che però gli viene ucciso davanti agli occhi; ecco così che comincia un’ossessiva ricerca dell’assassino che porterà il personaggio in questione a paradigma del male umano. Di stampo diverso invece il film Imputato in attesa di giudizio nel quale l’attore romano riesce con sbalorditiva crudezza a mostrare la tragicità in cui versa il sistema giudiziario in Italia, che per un banale errore di omonimia trasforma la vacanza di un uomo in un’odissea vera e propria fatta di prigionia e maltrattamenti; un vero film denuncia che risulta tutt’oggi attuale purtroppo.

Questi sono solo alcuni degli esempi che si potrebbero fare riferendosi alla filmografia sordiana, però proprio da questi esempi possiamo capire come non fosse solo l’attore “romanaccio” de Lo scopone scientifico e nemmeno solamente un attore comico, ma come egli abbia saputo coniugare la sua romanità simbolo di un’italianità grottesca con   personaggi che rimarranno espressione di valori autentici.

Ludovico Barletta

Madonna con discordia

Troppo spesso si sente dire che il più famoso e diffuso soggetto artistico, nonché il più odiato e incompreso, è quello della “Madonna con bambino”. Anche in ambiti accademici si sente molto spesso proferire espressioni del tipo: “sono tutte uguali” oppure “non comunicano nulla”. Questa terrificante leggenda va assolutamente sfatata.

Nell’ambito dell’arte moderna si può notare un’enorme differenza tra una “Maria con bambino” di Giotto e una di Raffaello o Leonardo, e non solo per l’enorme differenza di stile che contraddistingue queste personalità artistiche. Se si prende in considerazione una “Madonna in trono” di Duccio di Buoninsegna oppure di Giotto vedremo che la composizione si articola in modo centripeto verso lo scranno su cui la donna è seduta con il piccolo bambino in grembo; attorno a una corona di angeli accalcati l’uno sopra l’altro per osservare la scena, con la più totale assenza di una qualsiasi struttura prospettica. Lo sfondo è indistinto nella maggior parte dei casi, quasi sempre una parete di colore oro, mentre talvolta qualche tendaggio va a decorare le zone laterali della composizione.

Con Gentile da Fabriano gli sfondi continuano ad essere del medesimo colore però si compie un evoluzione nei panneggi, che si ammorbidiscono visibilmente e acquisiscono pieghe accurate colme di luci e ombre che le rendono eccezionalmente vicine al reale: sembra quasi di poter toccare il velluto che si palesa davanti agli occhi dell’osservatore.

All’inizio del 1500 grazie alle prime opere fiamminghe circolanti in Italia Antonello da Messina intuisce un nuovo modo di pittura, basato sulle tecniche a olio, che vede i pigmenti amalgamarsi e strutturarsi in modo diverso rispetto a prima, e infatti in questo concetto egli inizierà a concepire variazioni sul tema, il cui sfondo non è più monocromo oro ma vede ampi colonnati e loggiati che sembrano inondare l’amorevole coppia materna dallo sfondo della composizione attraverso intensi fasci di luce.  Si aprono enormi finestroni dai quali si riescono persino a intravedere piccoli scorci di panorami bucolici, il che inizia a dare alla scena pittorica quel concetto di profondità che con Leonardo arriverà al suo culmine. Infatti proprio grazie al pittore di Vinci vengono introdotti complessi paesaggi oscuri: grotte, loggiati e cortili porticati; non vi vediamo più però quegli ampi finestroni che inondavano la scena di fasci di luce che rendevano nette le figure della madre e del bambino, le quali adesso sono avvolte da cupe e fredde ombre che aiutano ad esprimere quella misteriosa ambiguità mista di sorrisi e gesti quasi criptici.

Un caso particolare è costituito da Giovanni Bellini il quale inserisce la dolce coppia in enormi prati rigogliosi e dietro le cui spalle posiziona alberi a volte colmi di frutti e foglie e altre volte spogli e scarni; la luce è quasi zenitale e va a colpire il bambino in pieno rendendone l’incarnato di un bianco quasi anomalo; l’epidermide dei due personaggi diventa quasi di fine porcellana.

Negli anni seguenti vi sono ancora alcune riproduzioni di questo soggetto mariano, sia da parte dei fiamminghi (che in questa sede non abbiamo citato) sia da parte di pittori italiani. Tuttavia con il 1600 (eccetto poche eccezioni) abbiamo la fine di quest’onda innovatrice: pittori come Caravaggio o Tiepolo torneranno a concentrarsi su episodi mitologici ed evangelici.

Ludovico Barletta

La nostra Venere

Quale pensiamo che sia il nostro ideale di bellezza femminile? Ci capita spesso di guardare una ragazza avvenente per strada e notarne le piacevoli curve del corpo o l’accuratezza del viso, tuttavia può presentarsi un dilemma: Quando entriamo al museo degli Uffizi è molto probabile che ci piaccia un’opera come la Venere del Botticelli. Perché? Il motivo non si trova tanto nelle forme, infatti osservando attentamente potremo notare che anatomicamente la donna ritratta è sproporzionata in numerosi punti: il collo ha una torsione irregolare ed è eccessivamente lungo, ugualmente il braccio sinistro della donna, quello che copre con una ciocca di fluenti capelli il proprio sesso,che risulta inoltre grosso e poco aggraziato. Eppure quando contempliamo questo dipinto potremmo passare lunghi minuti a guardarlo in tutta la sua sfolgorante avvenenza. Questa grande fortuna ci è data in quanto Botticelli ha saputo rendere la bellezza della donna in quanto tale, che avrebbe reso l’opera piuttosto piatta e banale, infatti non si noterebbe più l’intrinseca genialità, ma la sola e pura perfezione delle curve, che certo stupisce, ma fino a un certo punto. Invece questa imperfetta perfezione-uso quest’espressione di proposito- fa si che quella figura attraverso le sue anomalie possa essere per noi fonte di ammirazione e fascino. Quindi basta con le espressioni odierne di femminilità votate alla totale assenza di difetti: capelli perfettamente lisci, trucco calcolato al millimetro e unghie immacolate! Diciamolo, vogliamo donne imperfette come questa venere: dai capelli mossi e un poco caotici, la postura sinuosa ma non particolarmente curata, gli arti un poco sproporzionati, proprio in nome di quell’antiomologazione che invece oggi sembra far fatica a vincere il concetto di uniformità delle espressioni estetiche corporali femminili.

Ludovico Barletta

Un Amore Viziato

Conoscete la storia di Sansone e Dalila? Oltre ad essere il soggetto di bellissime opere d’arte è anche una storia molto avvincente. Si narra che Sansone fosse il giudice d’Israele e che possedesse un enorme forza grazie alla sua folta chioma, non per nulla era stato eletto a capo dei Nazirei, l’elite della società ebraica. Però la sua forza creava grandissima invidia tra i filistei, i quali nonostante i molti tentativi, non riuscivano mai a legarlo e sconfiggerlo, così decisero di appellarsi a Dalila, donna di grande fascino, che attraverso la sua avvenenza riuscì a farsi confessare quale fosse il segreto della forza dell’eroe ebraico, e saputolo addormentò l’innamorato con una pozione e ne tagliò i capelli. Così i filistei riuscirono a catturarlo, cavarne gli occhi ed esibirlo a Gaza come trofeo pubblico.

Ora, di questa patetica storia, possediamo molte opere, due delle quali andrebbero evidenziate. La prima è quella di Peter Paul Rubens, che attraverso la sua mirabile capacità di commistione dei colori caldi (giallo e rosso in primis) riesce a rendere con grande emozione il momento in cui la donna filistea tradisce il azareno e ne ha tagliato parte della chioma. Sullo sfondo si può scorgere la folla di filistei assiepata e pronta a catturare l’eroe israelita. Meravigliosa è la maniera in cui il pittore nativo di Siegen riesce ad adagiare il massiccio corpo dell’uomo tra le grinfie della donna, avvolgendoli in un abbraccio di luce e penombra che ci fa vivere la scena con grande trasporto.

Un altro grandissimo fiammingo, Antoon Van Dyck, imprime sulla tela gli istanti di poco seguenti a quelli dipinti da Rubens. Infatti possiamo vedere Sansone dimenarsi, assalito dai filistei, inutilmente perché oramai privato della sua chioma e, quindi, della sua straordinaria forza, salvo aver compreso oramai che la donna lo ha tradito: sul suo volto Van Dyck riesce a dipingere tutta la sintesi della disperazione data da un tradimento che è tanto più doloroso quanto era grande l’amore dell’eroe ebraico per la donna filistea. Il pittore di Anversa ha uno stile assai diverso da Rubens, infatti tratta i colori più freddamente, il che ci porta a guardare la scena con occhio più distaccato e oggettivo. Curioso è come ai piedi della donna vi sia un cagnolino, che per antonomasia è il simbolo della fedeltà.

Ludovico Barletta