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Ted (Non preoccupatevi, non è un’altra inutile pagina di Facebook)

TITOLO: “Ted”

REGIA: Set McFarlane

GENERE: Commedia

DURATA: 1o6 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Giovedì 4 ottobre 2012

Ted è un film che ha già nauseato chi frequenta abitualmente il web e Facebook.

Che un orsetto di peluche, animato grazie ad un desiderio natalizio, fumasse il bong lo si sapeva già da mesi e da fastidio un pubblico che va al cinema sapendo già di cosa ridere.

Mi spiego meglio. Domenica sera, in centro a Milano, al cinema Odeon, l’orsacchiotto di Set MacFarlane si è esibito davanti ad una sala quasi piena a poco meno di tre settimane dalla sua uscita nelle sale italiane. Si tratta evidentemente di un fenomeno in cui molti vogliano mettere la propria firma, dire “c’ero anche io” per poter ridere alle sue battute e citarle nelle prossime settimane sui social network. Ecco perché Ted, un film dal concept geniale, non ha il pubblico che si merita.

Tralasciando gli imbarazzanti applausi, estremamente fastidiosi, in sala ad ogni battuta del film (neanche fosse la prima di Frankenstein Jr.), sono rimasto basito da un elevato numero di persone che, bene educate e indottrinate da trailer e spoiler continui, sapevano già quando ridere e quando sarebbe arrivata quella precisa battuta che avevano letto s quel post. La triste verità è che la vera comicità di MacFarlane, quella fatta di non-sense e ripetizioni quasi ossessive, è stata colta da pochi e le battute migliori sono passate tristemente silenziose (a parte il sottoscritto che rideva da solo nel buio della sala), immeritatamente in sordina rispetto alle parti più grossolane e pubblicizzate. La canzoncina del temporale fa ridere ma molto più divertente è la descrizione tagliente e “piazzata lì” delle capacità attoriali di Sam J. Jones nel pluricitato Flash Gordon (1980). Fa ridere il teddy bear coccoloso e un po’ sgualcito strafatto di erba che dice parolacce, ma in pochi, a parere di chi scrive, sono stati in grado di apprezzare in pieno un film che merita una lettura decisamente meno volgare e superficiale di quella che gli viene dedicata.

Se il pubblico in sala prende un’ insufficienza grave (ma il pubblico cinematografico di Milano raramente andrebbe promosso), il film passa con buoni voti.

Come già detto, l’idea di base è eccezionale e segna un buon passo avanti nella rilettura sempre più televisiva e fumettistica del cinema. Il creatore de I Griffin ne approfitta per inserire una buona dose di cattiveria e di irriverenza, senza paura di estrarre dal cappello dell’immaginazione battute a carattere sessuale delle più esplicite e una rilettura coraggiosa della tipica favola di Natale che porta, nelle locandine, l’orsacchiotto Ted ad autocensurarsi.

Apprezzabile il lavoro registico che raggiunge il proprio apice nella sequenza in cui, dopo aver sniffato cocaina (altro tema difficile che MacFarlane tratta con una leggerezza quasi preadolescenziale), l’orsacchiotto e il protagonista Mark Wahlberg decidono di aprire un bar. Lì la cinepresa è in grado di seguire i pensieri confusi e allucinate dei due protagonisti, disegnandone il ritmo e la confusione.

Bravi i due principali attori umani: il già citato Mark Wahlberg e Mila Kunis che formano una coppia credibile e ben assortita, nella trama così come nell’intesa in fase di ripresa.

Un altro articolo dedicato meriterebbe l’effetto speciale che da vita a Ted sullo schermo. Set MacFarlane ha utilizzato una tecnologia molto simile a quella impiegata da Peter Jackson sul set de Il Signore degli Anelli per realizzare Gollum. La differenza sta nella possibilità, per MacFarlane (regista e protagonista del film) di poter indossare la tuta davanti alla telecamera interagendo fin da subito come orsacchiotto di peluche con gli attori in carne ed ossa, mentre Andy Serkis (Gollum), pur recitando fin da subito, doveva fare ulteriori riprese da solo per potersi trasformare nella creatura descritta da Tolkien. Questo sistema offre una possibilità di variare e improvvisare illimitata ed una naturalezza sullo schermo che deriva proprio dall’interazione massima tra digitale e umano.

Bel film, si ride molto e si rimane sorpresi da una violenza da cartone animato che non si limita nemmeno di fronte al picchiare bambini. Unica pecca: il finale. Non si anticipa nulla in questo articolo, ma bisogna sottolineare come il film perda tanti punti a causa del suo stesso epilogo. Iniziata con un bambino ebreo picchiato per le festività, la pellicola perde in cattiveria man mano che avanzano i minuti fino a giungere ad una conclusione buonista che tradisce lo spirito iniziale e che risulta dolciastra ed indigesta. Certo, fanno ridere le scritte in coda alla Animal House, ma ci sarebbe da chiedersi quanto la produzione abbia influito sulla stesura del testo o preoccuparsi per una inspiegabile sconfitta della parodia e della cattiveria da parte di MacFarlane che, in ogni caso, sorprende in negativo proprio all’ultimo, dopo una prestazione decisamente meritevole.

Simone Falcone

Il Ritorno del Cavaliere Oscuro – Le Scelte Difficili di Nolan

TITOLO: “The Dark Knight Rises”

REGIA: Christopher Nolan

GENERE: Azione – Drammatico

DURATA: 165 min.

PRODUZIONE: USA, 2012

USCITA NELLE SALE: Mercoledì 29 agosto 2012

Parliamo dell’ultima opera di Cristopher Nolan.

Parliamo di un film montato ed atteso per più di un anno e che, al suo debutto nelle sale, non delude le aspettative.

Numerose le critiche. Si accusa, innanzitutto, il regista britannico di magniloquenza e di aver richiesto troppo da un solo film.

Eppure, in questo capitolo, Nolan ha fatto scelte incontestabilmente pericolose quali mettere come avversario del cavaliere oscuro uno dei nemici più sconosciuti dell’universo DC: Bane, e di inserire in un film che aveva già detto di no al pop gotico di Burton e al pop punk di Schumacher, uno dei personaggi più pop di Batman, un personaggio, Catwoman, di cui, oltretutto, tutti noi nutriamo pessimi ricordi dopo l’interpretazione quasi pornografica e, incredibilmente, viste le premesse, sterile di Halle Berry.

Nolan, poi, non contento di tutto ciò, assegna la parte di Catwoman (che poi Catwoman non è, nel film) ad una delle interpreti femminili più in ombra di Hollywood. Se, infatti, in un’indagine per le vie di Milano avessimo chiesto di Anne Hathaway nessuno, prima di The Dark Knight Rises avrebbe saputo dirci alcun suo titolo, se escludiamo Il Diavolo Veste Prada in cui, comunque, l’interpretazione dell’attrice passa in secondo piano rispetto a quella magistrale, che nulla ha a che vedere con l’immeritato Oscar in Iron Lady, di Maryl Streep. Questo non perché non abbia fatto altri film che hanno goduto di discreto successo, ma perché l’attrice si è sempre persa nel panorama delle belle ragazze da commediola romantica senza mai lasciare l’impronta della propria presenza. Ma la Hathaway si dimostra straordinaria firmando, forse, il film della carriera. Sexy, sgamata, pungente e ancora sexy, l’attrice recita la parte di una ladra disincantata, dal passato turbolento, che riuscirà a raggirare Bruce Wayne/Christian Bale in più di un’occasione, sempre con enorme charme e classe, esibendosi in pose ginniche che hanno dell’incredibile e in battute scritte alla perfezione per un personaggio scrittole addosso che non ha niente da spartire con la Catwoman dei cartoni animati.

Ma un film come Il Ritorno del Cavaliere Oscuro, un film di una portata epica che ricorda molto i vecchi kolossal biblici, non può reggersi solo sui buoni. Ed ecco, allora, che i fratelli Nolan chiamano in causa il peggiore dei cattivi. Alcuni tra i più appassionati ricorderanno Bane nel fallimentare  Batman e Robin dove Schumacher si era divertito a ridicolizzare un personaggio tra i più complicati dei fumetti degli anni ’90, disegnandolo come un grosso patetico drogato privo di capacita cerebrali e cognitive. Il regista, invece, lo trasforma in un avversario che non ci fa rimpiangere il Joker, comunque insuperabile, di Heat Ledger. Lasciando da parte le futili ed alquanto tristi critiche dei putristi del fumetto per i quali non esisterà mai un film adatto a riportare sullo schermo degli eroi e dei miti che, forse, avrebbero dovuto abbandonare dopo i tredici anni, questo Bane merita un’attenzione speciale. È vero, il Bane disegnato da Graham Nolan è un sudamericano strapompato grazie ad una droga sperimentale chiamata Venom (da non confondersi con il Venom nemesi di Spiderman), mentre quello del film è un uomo molto forte, addestrato per anni, senza cavetti attaccati sulla schiena e maschere da lottatore di Wrestling anni ’90, che viene imprigionato da qualche parte in un deserto mediorientale e non fugge dal suo carcere fingendosi morto come fece Edmond Dantes, ma saltando su delle rocce per risalire un pozzo che non ricorda assolutamente la prigione di Santa Prisca ideata dagli sceneggiatori Chuck Dixon e Doug Moench. Ma Cristopher Nolan non ha rivoluzionato Batman abbandonandosi alla facile imitazione delle omonime strisce.

L’attore scelto e Tom Hardy che sfoggia una muscolatura quasi fumettistica in parte ereditata dall’eccezionale Warrior (2011) che si ritrova, costretto dentro una maschera che ricorda il muso di un babbuino, a dover recitare con gli occhi. Una sfida ampiamente vinta grazie a sguardi intensi e significativi, degni di un grande attore, supportati da una gestualità complicata e studiata ricca di atteggiamenti e pose, come l’afferrarsi la giacca con entrambe le mani, che rendono il personaggio assolutamente unico. Una delle migliori nemesi della cinematografia degli ultimi anni.

Il resto del cast non ha bisogno di presentazioni o di troppe parole e si conferma straordinario come nei primi due film della saga di Batman e in The Prestige, nel caso di Christian Bale e di Michael Kane.

Michael Kane è fantastico nel ruolo del maggiordomo Alfred che, pur sparendo per una buona metà del film, farà pesare come macigni i propri minuti di presenza confermandosi perfetto nel suo ruolo, scatenando nel disagiato Bruce Wayne una serie di sentimenti contrastanti che porteranno a delle scelte molto sofferte.

Gary Oldman arrabbiato che urla le propria morale tradita in un quasi primissimo piano, vale il prezzo del biglietto. Il commissario di polizia di Gotham City stupisce per le proprie scelte e per l’intensità impressa sullo schermo di un eroe di guerra che si sente spaesato in un momento di pace.

Bale è il miglior Batman di sempre e lo urla per tutto il film, lo afferma e lo conferma in una prova ancor più difficile delle precedenti.

Morgan Freeman è calato sempre meglio nei panni di un Lucius Fox che non ha paura di scottarsi, irriverente e dimentico, come sempre, dei propri anni.

Infine, Joseph Gordon-Levitt nel ruolo di un giovane poliziotto orfano che sembra aver già capito tutto, è desideroso di confermarsi in un ruolo ancor più lungo e complicato rispetto a quello riservato per lui in Inception e, a tratti, ce la fa, distinguendosi in mezzo ad un esercito di stelle già più affermate e amate dal pubblico.

Quella di Cristopher Nolan è stata una prova coraggiosa, dalle prime battute del film fino all’inizio dei titoli di coda. Il giovane regista conferma ancora una volta di poter diventare uno dei migliori nel panorama Hollywoodiano, rifiutando il più possibile il digitale e compiendo scelte difficili e rischiose sia nella sceneggiatura che in fase di ripresa e montaggio.  Il film è la conclusione perfetta e bilanciata per la saga non di Batman ma di Bruce Wayne, un Bruce Wayne che non è più integerrimo, non è più statuario e sicuro di sé come George Clooney ma che fa fatica, arranca e cade, a dimostrare, ancora una volta, che gli eroi possono fallire.

Un film bellissimo che non trova, ad oggi, pari in mezzo a quella lunga e prolifica serie di film usciti nel 2012 e schiaccia qualunque altro film sui supereroi a partire da quella vergognosa operazione commerciale chiamata The Amazing Spiderman fino al più apprezzabile e ben riuscito The Avengers, proprio perché non si tratta di un film di supereroi. Attendiamo ora The Man of Steel di Snyder che, scritto da Cristopher Nolan potrebbe essere un altro schiaffo alla cultura pop dei film tratti dai fumetti, ridimensionando un altro personaggio che, ormai, aveva nauseato da tempo.

Simone Falcone

Sulla Serietà del Pagliaccio

La parola clown, pagliaccio, è sempre stata associata allo spettacolo per bambini, allo spettacolo di strada e, grazie ai cosiddetti benpensanti e ad una cultura sempre più tesa al pregiudizio infondato, ai senzatetto.

Il Celebre Clown Grock

Il pagliaccio, così come i mangiafuoco, i giocolieri e gli artisti di strada vengono associati ai perdigiorno, alla cultura hippy ed ai mendicanti o, forse è ancora peggio, alla sola animazione per bambini. Evitando fraintendimenti di sorta, non si vuole negare in alcun modo l’anima clochard del busker o l’importanza dell’intrattenimento infantile, ma questi elementi non sono, a parere di chi scrive, gli unici dell’arte da strada e circense né, tantomeno, i più importanti.

Il busker e il clown sono lavori che richiedono delle abilità e delle conoscenze tecniche di diversi gradi di difficoltà che devono essere supportate da un allenamento costante e ripetitivo e da una fondamentale dose di fantasia.

Si tratta sì di un’arte che, come tale, richiede una buona dose di infantilismo ed ispirazione, ma anche di un mestiere (d’altronde, tutte le arti sono anche mestieri) con regole precise ed imprescindibili.

Bisogna diffidare di chi facendo l’idiota sul palco o davanti al pubblico si comporta da idiota anche nella propria quotidianità. Bisogna essere bravi a fare gli idioti, bisogna essere bravi a stupire e far ridere

perché solo chi è intelligente e consumato è in grado di suscitare una risata autentica.

Il mestiere dell’artista di strada e del pagliaccio sta perdendo credibilità a causa di chi pensa di poter lucrare facilmente indossando un naso rosso senza però metterci la serietà adeguata

Non è ovviamente l’unico fattore della crisi di questo mestiere: si potrebbe scrivere un altro saggio sulla perdita dei valori culturali e tradizionali da parte degli italiani o sui film che hanno dipinto il mondo dell’artista di strada come un mondo grigio o, addirittura, spaventoso.

Il clown e il busker devono saper vender sé stessi, non possono in alcun modo presentarsi con abiti sporchi o improvvisati o il trucco fatto male, devono evitare le pacchianerie, negligenza e laissez faire. Non è più accettabile che il pubblico si abitui ad un genere di offerta scadente ed antiestetica che, in nome di usanze sbagliate e di mancanza di voglia e serietà, vada a pregiudicare il lavoro di chi ancora ritiene l’arte circense e da strada un’arte, appunto.

Non si può negare la dimensione infantile dell’artista, ma essa deve essere supportata da una perizia tecnica precisa, da un senso estetico al passo con i tempi, dalla costante voglia di migliorarsi e rinnovarsi e dalla consapevolezza di ciò che si fa, cercando di essere sempre seri, professionali ed originali, per proporre ad un pubblico sempre più stanco della mediocrità qualcosa di nuovo e fresco.

Il busker è questo: serietà e giocosità, allenamento e genialità, marketing e vagabondaggio, progettazione ed improvvisazione. Chi segue solo le prime rinnega l’essenza stessa dell’arte, ma chi si affida alle seconde non ha compreso nulla del proprio mestiere.

 Simone Falcone

Burton – Il ritorno. Una commedia (quasi) tutta al femminile.

TITOLO: “Dark Shadows”

REGIA: Tim Burton

GENERE: Commedia – fantasy

DURATA: 140 min.

PRODUZIONE: USA, 2011

USCITA NELLE SALE: Venerdì 11 maggio 2012

Tim Burton si rinnova, se non nei temi, perlomeno nello stile.

Dopo l’uscita del trailer di “Frankenweenie”, si iniziava a dubitare sulla capacità del regista di rinnovarsi e di staccarsi da uno stile indubbiamente interessante ma che, ormai, puzza di stantio e di negozi di gadget. Burton sembrava, ormai, aver cavalcato l’onda di una indubbiamente meritata fama senza avere, però, il coraggio di scendere dal piedistallo e di provare qualcosa d’altro.

“Dark Shadows” sembra, però,    essere un passo avanti. L’artista, ovviamente, non rinuncia alla atmosfere ed ai temi gotici, proponendo una storia di vampiri, streghe e licantropi, ma si getta su nuovi scenari che, in alcuni momenti, abbandonano il gotico per diventare kitsch e barocchi, mescolando meravigliosamente gli stili dell’aristocrazia di fine Settecento con il peggio dei Seventies novecenteschi.

La storia, infatti, è tratta da una serie televisiva risalente alla fine degli anni ‘60 e narra di un vampiro maledetto da una strega risvegliatosi negli anni dei pantaloni a zampa d’elefante. Stupisce un’ironia crudele, a tratti politically incorrect, in particolar modo contro gli adolescenti e la cultura hippy. Quel genere di comicità che fa ridere proprio perché spietata e condita con un po’ di sano nonsense.

Nonostante la genialità espressiva e interpretativa di Johnny Depp nel ruolo del vampiro Barnabas Collins che dimostra la sua solita ed incontestabile bravura senza però dare nulla in più del pirata Jack Sparrow, nel film spiccano i ruoli femminili.

Eva Green nei panni della strega Angelique è sensuale e a proprio agio: gestisce lei il duetto con Johnny Depp, decidendone i ritmi con un personaggio che sembra esserle stato scritto addosso. Statuaria appare invece Michelle Pfiffer nei panni della capofamiglia senza scrupoli e pronta a tutto. La Bonham Carter – infatti citata a proposito nel nostro ultimo editoriale – tende a far ridere proponendo una psicologa alcolizzata che, pur distaccandosi dalla Bellatrix Lestrange potteriana, non può far a meno, di tanto in tanto, di cadere nel suo ruolo di caratterista di personaggi di indubbio gusto burtoniano. La rivelazione è, però, la giovanissima Chloe Moretz nei panni della quindicenne amorfa e disturbata Carolyn Stoddard. L’attrice, già vista in “Hugo Cabret” di Scorsese e in “Kick-Ass” di Matthew Vaughn, si inventa un personaggio difficile e lo interpreta con una perizia inaspettata per la sua età (classe 1997), conferendogli personalità, sagacia, ironia, cattiveria e, una certa dose di fascino, in un mix perfettamente bilanciato, conferma del già comprovato talento della ragazza.

Il film, nel complesso, scatena risate e qualche brivido e mantiene un buon ritmo per tutta la sua durata, mescolando buona musica, sesso, creature magiche, horror e nonsense. Il tutto riconfermando la bravura registica di Burton e – come già detto in apertura – svecchiandola senza tradirla.

Da vedere.

Simone Falcone

Ballons in Florence

Cos’è la Ballon Art?

La Balloon Art è l’arte di manipolare palloncini di qualunque forma al fine di ottenere altre forme. Non si tratta di sola arte di strada o per clown (anzi, queste ultime sono solo alcune delle numerose declinazioni della Balloon Art), ma piuttosto viene impiegata per rendere speciali grandi eventi, feste di compleanno, matrimoni, inaugurazioni, funerali, show e spettacoli di intrattenimento e così via. Le tecniche di manipolazione sono numerose ed utilizzate in differenti modi ed ogni anno ne nascono di nuove.

Le convention di Ballon Artist vengono organizzate, di mese in mese, in ogni angolo del mondo, dagli USA all’Australia. In genere, insieme ai corsi tenuti dai migliori maestri al mondo, si svolgono le competizioni. Le categorie sono numerose, ma, tra tutte, la più importante e prestigiosa è la “Large Sculpture” che prevede la realizzazione di una grande scultura che, in genere, raggiunge tra i due mezzo e i tre e mezzo di altezza massima.

A Firenze, tra il 19 ed il 24 aprile, si è svolta la Ballon Artist Convention Italy (BACI) che, da diversi anni a questa parte, è una delle più importanti convention europee di palloncini.

Il tema di quest’anno, era “Arti e Mestieri”, per celebrare la vera forza di Firenze dal rinascimento in poi, collegandosi tematicamente, in questo modo, al ventesimo compleanno dell’azienda organizzatrice del BACI: la Ballon Express.

Le categorie della ”Large Sculpture” sono due a Firenze: la BACI competition (campionato italiano) e la Master Competition, dedicata a chi ha vinto almeno una volta un campionato nazionale. Quest’anno il primo premio Master Competition è stato assegnato alla squadra capitanata da Alberto Falcone, artista e maestro CBI e QAI (due importanti riconoscimenti nel mondo della Ballon Art) di origini verbanesi che si è distinto realizzando, con una squadra di dieci elementi (compreso il sottoscritto), un’officina di stampa di libri con un amanuense che scrive su un foglio, la macchina di Gutemberg ed una vetrata. Ricca di dettagli molto raffinati, la scultura è stata apprezzata per i particolari dei libri e delle pergamene, realizzati con tecniche molto particolari, per l’intreccio dell’abito del monaco amanuense e, in particolare, per la vetrata che, in controluce, offriva l’effetto realistico di una vera opera realizzata da mastri vetrai nel medioevo. Un primo premio che celebra le dodici ore di lavoro e la difficoltà di una sfida lanciata contro altre cinque opere di indubbio valore (una torta realizzata dalla squadra russa che si è aggiudicata il secondo posto, la Monnalisa da terzo posto realizzata dalla squadra del siculo Alessandro Patanè, un toro ed un torero di Federico Onida, un Abat jour gigante di Sue Bowler e una colorata celebrazione delle proprie precedenti opere di Fiona Fisher)

Probabilmente alla pari di altre per tecnica, la scultura di Alberto Falcone, celebra la consolidata capacità dell’artista di dare vita alle proprie opere, donandogli un’atmosfera coinvolgente ed un forte impatto emotivo, capace di raccontare centinaia di storie celate al di là dei semplici palloncini.

Simone Falcone

When You Wish Upon a Star…

Che Walt Disney sia un genio è, ormai, assodato.

Chi non conosce Mickey Mouse o Donald Duck? Chi non si ricorda della strega di Snowhite o delle scope incantate in Fantasia? O, ancora, chi non ha mai sentito Hakuna Matata o The Circle of Life?

Ci sarebbero molti temi da considerare riguardo questa figura, da molti ritenuta controversa e, da altri, ingiustamente denigrata.

In questo articolo, mi soffermerò, in breve, sul rapporto di Walt Disney con il suo tempo e con i messaggi che sapeva trasmettere ai suoi contemporanei.

Lo scenario è questo: crisi del 1929…gli USA ne escono distrutti. Tutta la scala di valori della società statunitense degli Roaring Years viene travolta e ribaltata. Si vanno via via perdendo tutte le certezze che avevano segnato l’espansione economica nordamericana del primo dopoguerra. Licenziamenti in blocco, sfratti, criminalità organizzata e suicidi sono le parole chiave di una società sull’orlo del baratro. Chi era ricco si arricchiva e chi era povero moriva. Il 1929, però, è segnato, anche, da una forza dirompente ed inarrestabile, una forza che, da pochi decenni a quella parte, era entrata senza bussare nel vocabolario degli americani: il cinema.

Non è difficile immaginare lo schiaffo che la fantasia delle storie di grandi uomini dai grandi ideali poteva dare alla depressione. Andando al cinema, lo spettatore medio poteva vedere narrati in forma visiva racconti di chi sconfigge con forza i propri nemici per riportare ordine ed allegria nella propria vita. Il cinema di quegli anni raccontava l’utopia del lieto fine.

Mickey Mouse nasce nel 1928, e si trova a crescere proprio nel panorama della crisi.

Le storie di questo inimitabile personaggio e, più in generale, i cortometraggi prodotti dalle industrie Disney (si vedano, ad esempio, le Silly Simphonies) raccontavano un mondo che sapeva andare oltre i postulati del buon senso, un mondo dove un topo piccolo e povero poteva avere la meglio su un grosso gatto; un mondo dove un cane, scappando da una casa di ricconi, porta con se un tacchino ripieno da condividere con il suo padrone costretto all’addiaccio. Il mondo che immaginava Walt era un mondo di riscatto sociale dove la fantasia sconfigge la crudeltà della realtà e il povero ha la meglio sul ricco semplicemente perché sa di essere migliore.

Disney, con la sua opera ha saputo regalare, per quei dieci minuti di visione, un briciolo di speranza a chi di speranza non ne aveva più. Ha raccontato a quella gente illusa e crudelmente disillusa che “se puoi sognarlo, puoi farlo”.

Walter Elias Disney era un grande imprenditore, un capitalista fissato con il lavoro che imponeva orari massacranti ai suoi disegnatori ai quali negava addirittura un sindacato, ma il messaggio che sta dietro i suoi cartoni animati non può che svelare l’anima di un uomo che sapeva vedere oltre la fantasia stessa. Quella di Walt e dei suoi eredi è una realtà che esula addirittura dalle regole del marxismo, che rielabora il concetto di utopia proponendo un nuovo mondo in cui credere, un mondo privo di colori e bandiere, un mondo realizzato con la sostanza stessa dell’immaginazione. La cosa incredibile, però, è che Disney non poteva fare a meno di crederci e che i suoi spettatori non potevano e non possono fare a meno di sperarci.

Simone Falcone