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Circe ha conquistato il mondo…e ne ha fatto il suo porcile

<<E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.>>

da P.P.Pasolini, “Supplica a mia madre”

<<Che cosa immensa, e curiosa, il mio amore […].
Una cosa veramente unica.
Da non potermene mai un istante liberare, neanche dal pensiero.
Non è una cosa che capita nascendo, vivendo: no.
Insomma, non c’è in essa niente di naturale.>>

da P.P.Pasolini, “Porcile”

Più cuore che testa, per ‘Questo’ Julian Klotz (ex Julian Klotz), nato dalla creatività teatrale di Pier Paolo Pasolini, che vive dentro di sé, dentro le sue parole così perfettamente ritmate e, talvolta, rimate, in una filosofia ingessata nel corpo rigido;
più cuore che testa o, forse, niente testa, perché <<io non ho opinioni. Ho tentato di averne e ho fatto, in conseguenza, il mio dovere. Così mi sono accorto che anche come rivoluzionario ero conformista>>.
La triste verità di una tragedia che non esploderà mai, di un eroe che non agisce, dell’inferno di un peccatore che fa del peccato la sua santità.
Il titolo non è il luogo fisico in cui questo protagonista apatico eppure così affamato si trascina per saziare le sue anime contrastate, per unificarle sotto una sola bandiera – quella di un amore innaturale nella natura – , ma quello metafisico di una società che si nutre di tutto, una società cui appartengono un padre, padrone di un impero economico e Ida, giovane innamorata che si lascia divorare dalla causa per la pace.
Questo non-eroe vive in modo troppo misterioso, fa poesia della sua vita, e il mondo d’oggi non può tollerarlo, non può che cibarsene, inglobandolo, rendendolo parte di sé. In effetti, la società del 1967 (in cui va in scena la prima di “Porcile”) sta cambiando, e tra non molto, l’omologazione globale sconvolgerà le carte in tavola, le mischierà, così che non sarà più chiaro quanto i borgatari siano diversi dai pariolini.
Ciò nell’Italia di Pasolini, ma la Germania di Bonn?
<<La Germania di Bonn non è certo la Germania di Hitler, si fabbricano lane, formaggi, birra e bottoni, […]. La madre assassina. Lei ebbe figli obbedienti, con gli occhi azzurri, pieni di tanto disperato amore. Mentre io, io, madre affettuosa, ho questo figlio che non è né obbediente, né disobbediente>>.
Con queste parole comincia il film tratto dallo spettacolo, vergate su una lapide, epitaffio sulla tomba di un mondo che sta nascendo. Cannibale legittimato, mangia la sua prole senza processo, con una sola sentenza, incisa su pietra: <<interrogata ben bene la nostra coscienza, abbiamo stabilito di divorarti, a causa della tua disobbedienza>>.
La Germania è una madre, dunque, i cui figli sono causa di sofferenza perché non un estremo né l’altro, e insieme essa è una giuria inappellabile che l’estremo condanna.
Ed è questo ciò di cui lamenta Klotz padre, un umanista che pure crede che un giorno solo la tecnica meriterà importanza e che si unisce in società economica con il rivale Herdhitze, letteralmente brace ardente, ex nazista nostalgico di quei <<tempi d’oro>>.
Nei loro discorsi continuano a ricorrere i termini ‘maiale’, ‘grugnito’, e il loro brindare alla nuova alleanza economica non è che un grufolare.
Qualche patteggiamento ci deve essere stato tra i due così diversi e così platealmente invisi l’uno all’altro …
Sì, una storia di maiali, per una di Ebrei. Klotz è a conoscenza delle efferatezze compiute dal compagno (per le quali, tra l’altro, egli è costretto a nascondersi sotto una plastica facciale), e il compagno è a conoscenza della zooerastia del giovane rampollo di Klotz.
Un duplice ricatto tra uomini di potere.
<<Ed eccoci veramente al punto in cui pare che per lei sia impossibile dire e per me ascoltare>>, sono le parole del padre di Julian alla scoperta di ciò che lui già sa, anche solo inconsciamente, nel momento in cui, insieme alla moglie, rievoca i dipinti dei maiali di Grasz. Epoca molto attuale.
Tutto è poesia in forma dialogica; tutto è dialogo in forma poetica.
Tutto è discorso ma, in fondo, silenzio.
Anche nelle parole di Baruch Spinoza, che appare redivivo agli occhi di ‘Questo’ Julian, c’è il silenzio di un’abiura: l’abiura verso le sue stesse parole, immortalate nell’Ethica, perché <<nate da un mondo che avrebbe prodotto, alla fine, il tuo padre umanista e il suo socio tecnocrate>>. E’ vero, dice il filosofo <<la ragione mi è servita a spiegare Dio, ma una volta che, spiegato Dio, la ragione ha esaurito il suo compito, deve negarsi: non deve restare che Dio, nient’altro che Dio>>. Il Dio che vede in Julian, un Dio che mai consola e che porta il giornalista Arcangelo Sacchetti a vedere questa riflessione così vicina alla dialettica dell’Illuminismo, dove Horkheimer e Adorno studiano il <<nucleo genetico delle principali categorie che strutturano il corso della civiltà occidentale>>.
Più cuore che testa, per questo Julian che doveva <<entrare nella vita, per evitarla>>, che ne cercava una <<pura, solo … bella o terrorizzante … senza mai mezzi termini>>.
Sono le ragioni del cuore, espresse con la ragione del suo discorso filosofico, a condurlo di nuovo verso il porcile, per un’ultima unione d’amore in cui annullarsi: perché è meglio farsi sbranare dai veri maiali, piuttosto che lasciarsi assimilare dai maiali-persone rappresentati dall’ordine borghese …
… E così, ‘Questo’ Julian (ex-Julian) ce lo siamo mangiato tutto, non ne è rimasto nemmeno un dito, nemmeno un bottone; e ora vive un po’ in lui, quel porcello là in fondo, e in lei, la scrofa che allatta, e in ognuno dei suoi porcellini. Perché in fondo, che si nasca maiali, o uomini, la grande Circe che è questa società del 1967, ci rende tutti uguali e, alla fine, non fa differenza da chi ci facciamo sbranare.

<<Nella facilità dell’amore
il miserabile si sente uomo:
fonda la fiducia nella vita, fino
a disprezzare chi ha altra vita.>>
da P.P.Pasolini, “Sesso, consolazione della miseria!”

Letizia Chiodini

La religione dell’attore

“Che cos’è, per te, essere attore?”
“Correre per raggiungere la linea dell’orizzonte”.
Riszard Cieslak.

Quanto può essere difficile interpretare una parte? Essere attore: prove in un teatro che profuma di legno e polvere, copione, sipario, musiche, luci, luci …
E c’era, la luce, quel giorno in cui Rena Mirecka intraprese il viaggio verso una casa in mezzo alla foresta, coi compagni del Teatro Laboratorio. Aveva appena finito di piovere, l’aria sapeva di terra e il sole filtrava tra i rami gocciolanti. Si disse che quella luce l’avrebbe guidata, avrebbe condotto tutti sulla strada giusta.
Rena era un’attrice e Jerzy Grotowski il suo insegnante.
Lei non era l’unica a sentire la poesia, la tensione dell’attimo che giunge all’ispirazione. Essere attori è fatica, è corpo, è ricordo. Non è testo, né scenografia. Il teatro è “povero”, come il maestro lo intitolò in un suo trattato; è incontro, “ la vicinanza dell’organismo vivo: ecco il solo elemento di cui il teatro non può essere defraudato.” Esso è esperienza di vita che va oltre l’estetica, è un lavoro su di sé, una dialettica spirituale tra “chi fa” e “chi osserva”.
Pensate ad un sacerdote che parla ai suoi fedeli, l’estasi della cerimonia, l’invocazione di ciò che esiste in ogni uomo e che egli nasconde, lì davanti agli occhi dell’adepto.
Il Rito.

Come può non essere tale, l’inizio del capolavoro di Grotowski, Il Principe Costante, di Calderòn de la Barca e riscritto dall’autore polacco, Slowacki?
La storia narra di un principe portoghese, Don Fernando, che preferisce morire piuttosto che vedere l’isola di Ceuta, emblema della cristianità, cadere nelle mani dei Mori musulmani. Don Enrico, suo fratello, ha concordato che proprio la conversione dell’isola sia il pegno da pagare per la vita del giovane.
Il Principe è costante nella propria fede, ma il contrasto storico- religioso non sembra importare poi granché al regista, che intende mettere in evidenza il quadro sociale di violenza e sopraffazione che soffocano l’individuo rimasto solo. Anche la scena di Grotowski è divisa in due, ma non troviamo da un lato i cristiani e dall’altro gli islamici: ci sono coloro che sono pronti a farsi assimilare, di non importa quale fede, scissi al loro interno da tensioni sentimentali, e il protagonista, nella solitudine di chi ha scelto una via spirituale irrevocabile.
La scena, il Rito con cui si apre la Funzione, non è presente nel testo originale.

Gli spettatori sono entrati in sala, vengono ripartiti sui tre lati di una palizzata rettangolare, solo le loro teste sporgono dall’alto e i loro occhi stupiti guardano giù, verso quella pedana in legno – tavola operatoria, o altare sacrificale- all’interno di un’area che è arena.
Lo Schiavo è in scena, bianco tra i neri, trascinato verso la pedana. Torture delicate, quasi invisibili sul suo corpo seminudo, che richiama esplicitamente alla memoria la “Lezione di anatomia del dottor Tulp”, di Rembrandt. Impercettibili carezze che lo fanno sussultare e contorcere, fino al culmine di quel lungo bacio sulle labbra, datogli dal generale Muley, in una sensualità che, come sottolinea il teorico Roberto Alonge, è violenza, stupro. Tra le otto braccia che impongono “l’orribile potere dispotico” sull’indifeso, ci sono anche quelle di Fenice, che castra il prigioniero. Non sono questi gesti celati a colpire più di tutto lo spettatore allibito, ma quello subito precedente, compiuto dal re, che alzando la mano chiusa a pugno ne decreta l’esecuzione, e quello immediatamente successivo, che vede Tarudante agguantare brutalmente l’uomo per le gambe, spogliarlo e rivestirlo con l’abito nero che anch’egli indossa. Lo Schiavo è ora assimilato alla società dominante, fagocitato dalla maggioranza, privato – attraverso l’atto della castrazione- della sua individualità. Non a caso, l’attore che interpreta questa parte, sarà lo stesso a rappresentare Don Enrico che, mentre per Calderòn si trova in una situazione di necessità (vendere un ideale per salvare il fratello), qui rappresenta l’emblema della corruzione sociale. Questa sequenza proemiale è fondamentale per capire il seguito: il successivo ingresso, di Don Fernando, si connoterà come quello di un Secondo Prigioniero. Grotowski raddoppia, per valorizzare al massimo la variante personale del Principe: lo Schiavo cede e si integra, il Principe, no. Egli è costante. L’essenza di questo spettacolo, basato su un copione ridotto, sulla forza del corpo e dei gesti, è l’affinamento, fino alla “luminosità”, della ricerca sul corpo dell’attore protagonista, Ryszard Cieslak, il più celebre degli artisti del maestro.
Fu lunga e operosa la preparazione di questo spettacolo, che andò in scena nel 1965 in Polonia, terra del maestro e degli interpreti, e luogo di nascita del Teatro Laboratorio.
Grotowski aveva un rapporto molto stretto con i suoi attori: “Il testo parla di torture, di dolori, di un’agonia. Il testo parla di un martire che rifiuta di sottomettersi a leggi che egli non accetta. […] Ma nel mio lavoro di regista con Ryszard Cieslak, non abbiamo mai toccato niente che fosse triste. Tutta la parte è stata fondata su un tempo molto preciso della sua memoria personale legata al periodo in cui era un adolescente ed ebbe la grande esperienza amorosa. Tutto era legato a quell’ esperienza. Essa si riferiva a quel tipo di amore che, come può succedere solo nell’ adolescenza, porta tutta la sua sensualità, tutto quello che è carnale, ma, nello stesso tempo, dietro a questo, qualcosa di totalmente differente che non è carnale, o che è carnale in un altro modo, e che è molto più come una preghiera. È come se, tra questi due aspetti, si creasse un ponte che è una preghiera carnale.”

Rena cercava la strada che potesse essere un cammino per tutti loro: da ciò capiamo anche la potente unione tra gli attori, e tra essi e il loro lavoro. Un’assistente del regista, Stefania Gardecka, raccontò di come Cieslak si infuriò alla scoperta di un berretto rosso, rovinato da lei per sbaglio su una lampada: disse che aveva bruciato il sudore e la fatica del loro apprendimento.
Una “religione”, dunque, con le sue “reliquie”, un teatro per cui “immolarsi”. La stessa donna ricordò l’atmosfera sacra di silenzio, il giorno in cui, morto Riszard, ne portarono le ceneri in teatro. Le appoggiarono sul drappo rosso usato nel “Principe Costante”. Un Rito, quindi, per qualcuno che a quel teatro aveva dato più del solo corpo. Disse Grotowski: “ a lui ( a Cieslak) ho domandato tutto, un coraggio in un certo modo inumano […]Abbiamo solo lavorato lentamente.” Insieme, con la fiducia reciproca. E dopo “ non aveva paura, e si è visto che tutto era possibile perché non c’era paura”.

Letizia Chiodini

“IL GABBIANO”: SIMBOLO DI UNA REALTA’ SOGNATA

”La vita bisogna rappresentarla non così com’è,
e nemmeno come deve essere,
ma come ci appare nei sogni”.
Anton Cechov.

1896. ANTON CECHOV siede nella platea del teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo. Ha 36 anni, una passione e un desiderio: aprire le porte dell’Europa al suo teatro. Il pubblico è in silenzio, il sipario si è appena aperto, in scena un uomo e una donna. Lui le chiede perché sia sempre vestita di nero, lei si volta, è giovane, bella. “E’ il lutto per la mia vita”.
Questa è la battuta che consacra l’inizio de “Il gabbiano”, quattro atti di incomprensione, ricerca, scontro, arte. Lotta contro e per l’Arte. Nessuna personalità a dominare. Nessun vincitore. Tutti vinti. Da chi? Da che cosa?
Secondo atto: l’agitazione tra il pubblico cresce, Cechov si irrigidisce sulla sua sedia. Possiamo immaginare i suoi pensieri, un’altalena tra sconforto e desiderio, desiderio di arrivare alla fine, di ricevere un applauso che consacrerà il suo dramma. Del resto non può andare così male.
Vera Kamissarzhevskaya, che impersona Nina, è una delle attrici migliori di Russia, ma la tensione e i commenti degli astanti la intimidiscono al punto da farle perdere la voce.   Non può andare così male …
Andrà anche peggio.
Il drammaturgo si alza, mentre il brusio si fa insopportabile,  si rifugia dietro le quinte. Scappa. Non teme il linciaggio, semplicemente perché non è da temere, ora è il suo stesso dramma a terrorizzarlo.
A questo punto possiamo vederlo avviarsi solo verso il suo alloggio e decidere: “Non scriverò mai più per il teatro”.
E per due anni la sua penna non si poserà sulla scena. Ma che cosa ha infervorato tanto il pubblico prima e la stampa poi?
La sua storia è un mosaico di situazioni ed eventi, di personaggi che prendono la parola, che si “svuotano”, senza consolarsi, annegati nell’atmosfera di silenzio teso di una campagna russa. Quella Russia che spaventa tanto Cechov, dove il “piccolo uomo” si perde nella vastità dello spazio.
Qui vive Konstantin, giovane cupo e ispirato, scrittore che soffre la natura della sua stessa arte. Sta per rappresentare un dramma da lui inventato nel giardino della villa dello zio. Eppure afferma “Io odio il teatro”. E’ chiaro, lui odia le forme convenzionali, non sopporta l’eccesso di una madre attrice, Irina, gonfia esponente di un palcoscenico grandattoriale, non sopporta la banalità di un’arte che pretende di “pescare una morale piccola, facile […] di uso comune”. Kostja vorrebbe essere un innovatore, ma è un “borghesuccio di Kiev”, di questo lo accusa Irina durante un litigio, quasi come se fosse una colpa.
Kostja attraversa il dramma come in un sogno dal quale non riesce a destarsi: dal suo piccolo spettacolo dai connati simbolisti ai suoi ultimi scritti, pieni di immagini e rimandi. E il simbolismo è la via che Cechov vuole indagare: non avrà dimenticato i giorni trascorsi a Parigi, nel 1891, e i giovani d’avanguardia che volevano cambiare il mondo: e kostja è giovane, intelligente, vero “simbolo del simbolismo”. Esso è nel titolo, in quell’uccello morto che il ragazzo getta per capriccio ai piedi dell’amata, Nina, che lo sta dimenticando. Lui ha ucciso il gabbiano come un giorno farà con se stesso, dice.
Trigorin, amante di Irina, e con lei immagine del mondo da cui Kostja vorrebbe scappare, seduce la giovane Nina, portandola con sé piena di promesse e condannandola ad una vita infelice.
Eppure questa non è una storia di amori non corrisposti, non è la tristezza della bella ragazza, Masha, che celebrava il lutto per la sua vita e che finisce con lo sposare un uomo che non desidera. E’ una storia di letteratura, di arte, di sogni, e se non possiamo dare ad essi nuove forme, “allora niente, meglio niente”.
Né Kostja né nessun altro personaggio è esponente del pensiero dell’autore, almeno, secondo gli studi. Di certo si può dire che Cechov sia stato fedele all’affermazione della sua creatura: il pubblico fischia, lui posa la penna. “Niente, meglio niente”.

1898, Mosca. Il simbolo di un gabbiano è pronto ad accogliere gli spettatori del Teatro d’Arte di Stanislavskij e Nemirovic- Dancenko. Il diciassette dicembre è appena passato, ed è stato un clamoroso successo. Dancenko vide lontano e fu ardito nella sua decisione di chiamare un drammaturgo che non voleva più considerarsi tale ad esibirsi presso il suo teatro. Gli applausi dimostrano a Cechov e ai suoi personaggi senza via d’uscita che potevano essere amati.
La campagna russa non divenne più calda, e il volo del Gabbiano in Europa fu l’approdo al continente di cui Cechov aveva parato: un luogo contrario alla sua terra, dove l’uomo va in malora perché soffocato dai claustrofobici spazi.
Ma in Europa si posò e vi rimase, e vi rimane tutt’ora, rappresentato dai registi di tutti gli Stati.

1969. Il pubblico applaude alla regia di Orazio Costa Giovangigli e ai giovani e bravi attori Gabriele Lavia e Ilaria Occhini. Una telecamera fissa l’interpretazione.

2012. Una giovane studentessa di teatro rimane oltre due ore a guardare, senza staccare gli occhi, il risultato di quella ormai vecchia pellicola. Ci penserà per una notte intera, siederà in platea accanto al drammaturgo, contemplando lo spettacolo, gli interpreti, l’atmosfera di una Russia lontana. Alla fine applaudirà, non come uno spettatore educato, ma come uno appassionato. E il sipario sarà calato…
… fino alla prossima sera.

Letizia Chiodini

“Esequie Solenni” Ovvero un Reading Metateatrale

Per poter parlare esaurientemente di questo spettacolo teatrale è necessario presentare i protagonisti della messa in scena: l’autore e la regista.

Antonio Tarantino, drammaturgo italiano contemporaneo che nulla ha da spartire con il regista omonimo, scrive Esequie Solenni all’interno di una trilogia sulla storia recente italiana. La trama è quasi inconsistente, totalmente priva di azione – teatrale e non – e non vi è caratterizzazione convenzionale dei personaggi. Come però sottolinea la regista Andrée Ruth Shammah in occasione di un incontro con alcuni studenti all’Università Statale di Milano, il dramma è caratterizzato da una tensione che fa restare lo spettatore attento a quello che avviene in scena. I personaggi quanto mai interessanti sono Nilde Iotti (o Leona) e Franca De Gasperi che lungi dall’avere il ruolo di personaggio storico determinante per l’evoluzione italiana, si confondono tra loro, scambiandosi ruoli, perdendo identità a fronte di un sovrapporsi sconcertante di parole sino a uscire da se stesse per diventare metateatrali.

E proprio da questo che Andrée Ruth Shammah, regista fondatrice del Teatro Parenti  nel 1972 con  Franco Parenti, Giovanni Testori e Dante Isell  presso cui si svolge la rappresentazione, trae la base del suo spettacolo. Dopo alcuni problemi con la realizzazione dello spettacolo in maniera naturalistica e la sostituzione a tre giorni dal debutto di una delle due attrici (Ivana Monti e Laura Pasetti), riesce a realizzare una rappresentazione di un testo considerato irrappresentabile tramite l’uso della metateatralità. Le due attrici possono così scambiarsi ruoli, entrare uscire dalla parte e spiegare alcune linee, che altrimenti risulterebbero confuse, del testo.

Questa rappresentazione ha una scenografia che è realisticamente uno spaccato di una abitazione e al contempo mantiene significati simbolici del dualismo Iotti/De Gasperi e ha giochi di luce molto intensi (e ancor più interessanti se si procedesse all’eliminazione di una inutile scala).

La recitazione è però quasi totalmente statica, giustificando la staticità presente in Tarantino con la lettura della parti invece della loro effettiva recitazione. Una totale non immedesimazione dell’attore nel personaggio ma anzi un personaggio bloccato nella sua fissità e una attrice che si può muovere solo quando non è personaggio.

Inoltre vi è un personaggio non presente sulla scena ma forse determinante nell’immaginazione dello spettatore anche: un esserino peloso, deforme e privo del senso dell’umorismo. Quale sia la sua natura non è dato saperlo: memoria, dolore, ricordo? Questo è uno dei dubbi che lo spettatore deve sciogliere da sé.

L’effetto che rimane nello spettatore non è di sicurezza ma anzi appare duplice in più di un senso. Il primo è quello delle parole, si ha la sensazione di dover vedere lo spettacolo infinite volte per poter comprendere ogni passaggio e ogni minuzia dei ragionamenti che si perdono nel fiume di parole e nella loro lettura un po’ troppo veloce in rapporto alla loro difficoltà ma al contempo ci si rende conto della totale inutilità delle parole a fronte dell’unica azione della piece: la Scelta, ovvero partecipare alle esequie e vivere una vita di lutto come simbolo del partito o scappare con un nuovo possibile amore? E appunto questa scelta il secondo dilemma: sono donne che parlano di uomini per un ora e venti o donne che impongono se stesse e la loro presenza nel mondo? E così tutti gli altri temi scivolano via tra le parole: la morte, la vita, il partito, l’amore. Allo spettatore pare di aver afferrato solo il fumo di un idea vaga che ha lasciato dietro di se solo il suo profumo.

Alessandra Carlino