L’Arte della Ribellione

Se si guarda alla storia dell’arte, si vede che spesso quadri e sculture sono diventati mezzi per esprimere messaggi politici, impliciti o espliciti; per criticare la società, un governo e le sue decisioni, per fare propaganda. La cultura punk era ritenuta ribelle perché mirava a mettere in crisi l’ordine costituito. Quello che la società inglese considerava scandalo nell’Inghilterra degli anni ’60 era esattamente ciò che questi artisti proponevano, ironizzando sulle istituzioni e facendo barcollare le basi su cui poggiava la stessa società.

Un’operazione simile, sebbene in modo molto diverso, l’ha svolta anche Gustave Courbet nel mondo della pittura. Adottando lo stile realista, egli ritrae la durezza della vita e, così facendo, sfida il concetto di arte accademica tipico del suo tempo, attirando su di sé la critica di aver deliberatamente adottato una sorta di “culto della bruttezza”. La sua ribellione si manifesta prepotentemente nel momento in cui decide di esporre le proprie opere in una mostra indipendente in quanto escluse dall’esposizione universale a Parigi del 1855; egli afferma di essere stato un autodidatta e idea uno studio sperimentale in cui manca la figura del maestro.

Il quadro “L’atelier del pittore” esprime esattamente questa sua idea; al centro c’è il pittore stesso mentre realizza un dipinto e al suo fianco una donna che simboleggia la verità. Alla sinistra del pittore un bambino in piedi osserva attentamente i gesti dell’artista, cercando di capirne il significato e la tecnica, mentre sulla destra, più scostato, un altro bambino sdraiato sta disegnando a sua volta, intento nel realizzare la propria opera. Ecco il modo secondo Courbet in cui si dovrebbe fare arte, non c’è bisogno di un’Accademia, bisogna solamente osservare per imparare dal vivo e poi provare a mettere in pratica ciò che si è imparato.

L’innovazione di Courbet non sta solo nel suo ideale di artista che impara sul campo ma anche nello stile che egli adotta. Un canone dell’Ottocento era quello di riservare le tele di grandi dimensioni per temi classici con molte figure oppure paesaggi, che richiedevano molto spazio. Ciò che fa Courbet è impiegare le grandi tele per raffigurare persone comuni, non borghesi ma addirittura contadini.

E’ il caso di una delle sue prime opere importanti, “Funerale a Ornans”, dove la scena rappresentata è quella del primo funerale celebrato in un cimitero; l’artista ritrae le persone che assistono alla cerimonia con un atteggiamento annoiato, sono lì a causa delle circostanze, perché è giusto esserci ma vorrebbero trovarsi da tutt’altra parte e lo dimostrano con la loro espressione e la loro postura, non sono minimamente interessati a ciò che sta accadendo. Allo stesso modo non viene nascosta l’umile vita di queste persone, nell’abbigliamento e nella modestia della cerimonia e del luogo, non per questo però sono persone che valgono di meno, che hanno meno dignità; ecco il messaggio che si vuole far passare, sono di origini umili, fanno una vita modesta ma sono persone e per questo hanno la dignità di qualsiasi altro uomo e meritano di essere rappresentati su una tela riservata alla grandezza della classicità.

Nel corso della storia dell’arte vari artisti assorbono il messaggio “emancipazionista” di Courbet: tra questi James Ensor. In questo artista il realismo non è inteso come mimesi della natura, d’altronde è figlio di movimenti come l’impressionismo ed il divisionismo in cui c’è un sistematico allontanamento dal tipo di mimesi dell’accademia; il realismo che deve essere rappresentato è quello degli uomini, la loro reale condizione. Ensor non era ben accetto dalla società dell’epoca, non solo per le sue accuse ma anche per il suo stile non certo accademico (le sue opere, come quelle di Courbet, non erano accettate ai Salon). Le accuse del pittore sono dirette principalmente verso la sua società, così oppressa dalla falsità dell’apparenza e formata non più da persone, ma da maschere e scheletri; infatti il pittore stesso dice: “ L’artista e l’individuo restano sempre più isolati, nell’impossibilità di specchiarsi o di entrare in dialogo con gli altri “. Le sue opere sono principalmente basate sulla tendenza al gioco, sull’elaborazione ornamentale e sulla capacità di strutturazione ordinata dell’immagine.

Nel caso di “scheletri che si riscaldano” si comprende benissimo il paradosso tra il bisogno umano del calore e il corpo inesistente, fatto solamente di ossa che non possono ricevere calore; oppure in “scheletri si disputano un osso umano” c’è la lotta per contendersi quello che dovrebbe essere cibo, anche qui un cibo che non può portare alcuna soddisfazione, lo scheletro non può certo estrarre da solo il nutrimento. In entrambi i casi si parla di bisogni appartenenti all’umano che però sono destinati a rimanere inappagati a causa di quello che l’uomo è diventato; all’interno sente ancora tutto ciò che è collegato al suo essere uomo, ma all’esterno questo non ha riscontro. Egli ha basato la sua vita così tanto sulle falsità e le convenzioni della società che questa l’ha portato ad avere solo l’aspetto di ciò che resta di un uomo dopo la morte, non di un uomo vero e reale.

Dall’altro lato troviamo “L’entrata di Cristo a Bruxelles” (oggi al Musée Royal des Beaux-Arts di Anversa), opera che si presenta come celebrativa, ma il tutto è smorzato dall’ironica decontestualizzazione. La trasposizione temporale, infatti, colloca il fatto all’epoca moderna in una città brulicante di folla e alla presenza di una banda di militari in divisa. L’atmosfera è quella di una manifestazione di piazza in cui Cristo, al centro della tela, avanza a fatica, in mezzo a una folla pressante fatta di maschere e fantocci; la figura divina viene privata di qualsiasi carisma e il simbolo del cristianesimo perde di qualunque significato profondo, diventando maschera al pari delle altre. In questo modo la verità, che in qualche modo cerca di arrivare agli uomini, anche se a fatica, si perde in mezzo al caos e alla menzogna; sono gli uomini stessi che la allontanano da sé, impedendole di manifestarsi. Quindi il simbolo della fede cristiana diventa un pretesto di una critica alla società moderna, ridotta ad una congrega di fantocci urlanti e indifferenti, personaggi caricaturali volutamente volgari.

Entrambi gli artisti quindi approdano a una pittura realista, sebbene in modi differenti: se Courbet ne è il vero iniziatore, colui che crede nella rappresentazione della vera realtà per scoprire i meccanismi che la attuano, Ensor la rivaluta in chiave satirica per esercitare una forte critica sulla società a cui apparteneva.

Cristina Cattaneo

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