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Nel dolore di un padre

L’amore incondizionato verso i figli. L’impotenza di non poter salvare chi si ama di più al mondo. Di conseguenza, la rabbia e il dolore. Questo mi viene in mente quando guardo il “Laocoonte” (I secolo d.C., scultura in marmo, Musei Vaticani).

« Questa è macchina contro le nostre mura innalzata,
e spierà le case, e sulla città graverà:
un inganno v’è certo. Non vi fidate, Troiani.
Sia ciò che vuole, temo i Dànai, e piú quand’offrono doni. »

(Commento di Laocoonte di fronte ai Troiani; Publio Virgilio Marone, Eneide, libro II, versi 46-49)

Il gruppo statuario mostra il momento finale di una lunga vicenda: Laocoonte è un veggente abitante di Troia e diventa protagonista nel momento in cui nella città entra il famoso cavallo usato per ingannare i troiani. Egli si oppone alla decisione di far entrare il cavallo in città e per questo motivo Atena, o secondo un’altra versione Poseidone, invia Porcete e Caribea, due enormi serpenti marini che stritolano i suoi figli e lui stesso, nel momento in cui accorre per salvarli. Al centro spicca il corpo di Laocoonte con i muscoli in tensione nel tentativo di liberarsi dai mostri, il busto si inarca in modo esagerato, evidenziando lo sforzo, e il movimento è continuato dalla testa che si appoggia sulla spalla sinistra; sul suo volta regna già la desolazione poiché percepisce la bocca del serpente che sta per morderlo al fianco e sa che sarà la fine, sua e, inevitabilmente, anche dei figli. Dei due ragazzini quello di destra appare essere nella situazione più difficile, completamente avvolto dalle spire del mostro, non sembra trovare una via di fuga, al contrario del fratello maggiore il quale sta per liberarsi la caviglia e può avere una speranza di salvezza.

Ciò che colpisce quando ci si trova davanti alla statua è la capacità dell’artista che è riuscito a esprimere il dolore di un uomo in maniera così dignitosa, un padre distrutto che in qualche modo riesce ancora a trasmettere fierezza.

Proprio questa posatezza viene presa come esempio da Lessing, filosofo tedesco che tratta di estetica e ritenuto un importante esponente dell’Illuminismo settecentesco, che scrive un’opera intitolata Del Laocoonte nel 1766, nella quale confronta i mezzi delle arti figurative e di quelle letterarie. Egli ritiene che dal punto di vista estetico (dove per estetica si intende la branca della filosofia che studia l’arte e le sue manifestazioni) tra i due ambiti c’è una netta differenza. Lessing sostiene che, nel momento in cui leggiamo il passo in cui Virgilio ci descrive la sorte di Laocoonte, noi riusciamo a oltrepassare l’immagine che arriva alla mente di quest’uomo che spalanca la bocca per il dolore, in quanto lo conosciamo già come patriota e padre amorevole e come tale suscita in noi un sentimento di affetto e riconduciamo il suo grido all’insopportabile pena che sta patendo. Quando si parla di scultura o pittura, però, ciò che conta è ovviamente l’immagine e per questo l’espressione del dolore fisico deve sottostare a una precisa misura, la quale scaturisce dalle esigenze di ogni singola forma d’arte. Secondo Lessing, per quanto riguarda le arti visive, il loro oggetto è la bellezza visibile nella sua perfetta proporzione e regolarità, mentre il fulcro della poesia sarà l’espressione in cui potranno rientrare l’imperfezione e la bruttezza.

Nella plastica lo scultore è obbligato a rappresentare un’azione congelata in un istante, eliminando lo scorrere del tempo, e per questo deve limitare la presenza del brutto e del raccapricciante, mentre, al contrario, la poesia che rappresenta azioni che si svolgono in un lasso di tempo può inserire il brutto che, mai fine a se stesso, deve contribuire allo scopo artistico.

Ora il mio consiglio è solo quello di  godersi lo spettacolo di un’opera che riesce a rapire l’immaginazione e i sentimenti. Certo non sono molto imparziale…ma chi di noi lo è quando parla di qualcosa che ama?

Cristina Cattaneo

Astratto, ci piace

L’astrattismo rappresenta l’evoluzione di movimenti come il cubismo, l’espressionismo e il futurismo che si influenzano a vicenda e sembra riassumere, all’interno di sé, quello che è il loro intento comune: mostrare il singolare e il cosmico insieme. Ciò può voler dire tutto e niente.

Il tentativo degli astrattisti è di andare oltre la vista e arrivare a esibire gli “elementi ultimi”, ossia i concetti chiave che rappresentano l’universale di ogni uomo, le leggi del mondo in quel particolare momento.

Il fatto di voler oltrepassare l’organo visivo ha una diretta conseguenza nella mancata rappresentazione di oggetti, come può il particolare essere in grado di rivelare l’universale? Possono le leggi universali fermarsi a qualcosa di materiale?

Il fondatore dell’arte astratta è considerato Vasilij Vasil’evič Kandinskij. Nasce a Mosca nel 1866, si laurea in economia politica, ha una grande passione per la musica e dal punto di vista artistico si lega da subito agli impressionisti e ai post-impressionisti.

La sua convinzione è che tramite il dipinto l’artista sia in grado di dare un volto esteriore alle espressioni interiori, vuole una nuova arte che consente di esprimere il sé, quel lato spirituale non necessariamente legato al mondo.

Nel 1911 fonda il movimento chiamato Der Blaue Reiter ossia “il cavaliere azzurro”  prendendo ispirazione da uno dei suoi dipinti. Il cavaliere, simbolo della spiritualità richiamata dal colore azzurro del suo mantello, domina la corsa del cavallo, il quale rappresenta l’energia irrazionale delle passioni. Il soggetto non è scelto a caso, infatti Kandinskij ama molto le fiabe del Medioevo tedesco e in particolare è affascinato dalla figura del cavaliere che affronta prove ardue per combattere il male, vedendo in ciò la battaglia dello spirito contro il materialismo. La tecnica usata in questo quadro è ancora molto vicino all’impressionismo, il cavaliere e il suo animale sono figurette simboliche composte da macchie di colore; l’accostamento dei colori stesi in modo piatto riesce a suggerire l’idea dello spazio, ma questo è già percepito come non realistico.

Il Nostro, però, non è solamente un pittore, infatti nel 1910 termina di scrivere Lo spirituale nell’arte in cui egli si riferisce a una nuova epoca di grande spiritualità e all’apporto che ad essa può dare la pittura, cercando di descrivere l’ arte innovativa a cui vuole dare avvio che si baserà sul linguaggio del colore. Proprio nel particolare modo in cui viene usato quest’ultimo elemento Kandinskij vede un profondo nesso tra opera d’arte e dimensione spirituale dell’uomo.

I colori possono avere due effetti: l’effetto fisico basato sulle sensazioni momentanee che arrivano dalla registrazione del colore da parte della retina; ma più interessante è l’effetto psichico che è espresso come la vibrazione spirituale attraverso cui il colore raggiunge l’anima ed è determinato dalle qualità sensibili proprie del colore, cioè il suo odore, il suo sapore ed il suo suono.

Ma non basta, le composizioni pittoriche sono ovviamente formate dai colori, i quali necessariamente assumono una forma sulla tela, rendendo impossibile separare questo binomio; l’accostamento tra le due parti è fondato su un rapporto privilegiato tra singoli colori e singole forme e se un colore è associato alla sua forma privilegiata gli effetti che scaturiscono da colore e forma sono potenziati. Ad esempio il giallo ha un rapporto privilegiato con il triangolo, il blu con il cerchio e il rosso con il quadrato.

Il concetto fondamentale che viene espresso, però, è che la composizione di un quadro non deve seguire puramente esigenze estetiche ed esteriori, anzi deve assecondare una necessità interiore dell’artista, in quanto il bello non corrisponde a canoni ordinari prestabiliti ma proprio all’espressione di questa necessità interiore.

Un esempio del suo lavoro è Composizione IV in cui tramite pochi segni Kandinskij rappresenta una battaglia. La prima impressione che ci arriva è proprio quella di un contrasto: le due linee spesse al centro dividono la tela in due parti, sulla sinistra le linee spezzate si intersecano disordinatamente tra loro, sulla destra regna l’armonia tra forme e colori.

La riduzione dei segni vuole ottenere l’effetto di riuscire ad esprimere una visione cosmica e solo comprendendone il significato si può carpire il tema del suo lavoro, quindi è l’artista stesso a condurci verso la lettura della natura conflittuale del quadro.

Egli opera quindi su diversi livelli: il primo è quello di usare forme e colori per suscitare un impatto emozionale sullo spettatore senza coinvolgerlo in altro modo, in seguito è richiesta la sua partecipazione attiva dal punto di vista intellettuale nel momento di codifica dei segni portatori di un significato nascosto.

Il punto affascinante di artisti come Kandinskij non è tanto nella sfida a cogliere delle forme realistiche o naturalistiche all’interno delle sue tele, cosa che non è assolutamente possibile in quanto la mimesi non è presa in considerazione, ma vedere come ogni artista sviluppa la sua ricerca. Ogni astrattista vuole esprimere l’essenza cosmica, le leggi regolative dell’universo e tutti lo fanno nel modo che ritengono sia il migliore possibile, per far sì che vengano riconosciute queste istanze. La libertà di visione che viene lasciata a chi guarda, dal mio punto di vista, è ciò che rende l’astrattismo così forte; non ci sono idee giuste o sbagliate, solo trasmissione di sensazioni.

Cristina Cattaneo

L’Arte della Ribellione

Se si guarda alla storia dell’arte, si vede che spesso quadri e sculture sono diventati mezzi per esprimere messaggi politici, impliciti o espliciti; per criticare la società, un governo e le sue decisioni, per fare propaganda. La cultura punk era ritenuta ribelle perché mirava a mettere in crisi l’ordine costituito. Quello che la società inglese considerava scandalo nell’Inghilterra degli anni ’60 era esattamente ciò che questi artisti proponevano, ironizzando sulle istituzioni e facendo barcollare le basi su cui poggiava la stessa società.

Un’operazione simile, sebbene in modo molto diverso, l’ha svolta anche Gustave Courbet nel mondo della pittura. Adottando lo stile realista, egli ritrae la durezza della vita e, così facendo, sfida il concetto di arte accademica tipico del suo tempo, attirando su di sé la critica di aver deliberatamente adottato una sorta di “culto della bruttezza”. La sua ribellione si manifesta prepotentemente nel momento in cui decide di esporre le proprie opere in una mostra indipendente in quanto escluse dall’esposizione universale a Parigi del 1855; egli afferma di essere stato un autodidatta e idea uno studio sperimentale in cui manca la figura del maestro.

Il quadro “L’atelier del pittore” esprime esattamente questa sua idea; al centro c’è il pittore stesso mentre realizza un dipinto e al suo fianco una donna che simboleggia la verità. Alla sinistra del pittore un bambino in piedi osserva attentamente i gesti dell’artista, cercando di capirne il significato e la tecnica, mentre sulla destra, più scostato, un altro bambino sdraiato sta disegnando a sua volta, intento nel realizzare la propria opera. Ecco il modo secondo Courbet in cui si dovrebbe fare arte, non c’è bisogno di un’Accademia, bisogna solamente osservare per imparare dal vivo e poi provare a mettere in pratica ciò che si è imparato.

L’innovazione di Courbet non sta solo nel suo ideale di artista che impara sul campo ma anche nello stile che egli adotta. Un canone dell’Ottocento era quello di riservare le tele di grandi dimensioni per temi classici con molte figure oppure paesaggi, che richiedevano molto spazio. Ciò che fa Courbet è impiegare le grandi tele per raffigurare persone comuni, non borghesi ma addirittura contadini.

E’ il caso di una delle sue prime opere importanti, “Funerale a Ornans”, dove la scena rappresentata è quella del primo funerale celebrato in un cimitero; l’artista ritrae le persone che assistono alla cerimonia con un atteggiamento annoiato, sono lì a causa delle circostanze, perché è giusto esserci ma vorrebbero trovarsi da tutt’altra parte e lo dimostrano con la loro espressione e la loro postura, non sono minimamente interessati a ciò che sta accadendo. Allo stesso modo non viene nascosta l’umile vita di queste persone, nell’abbigliamento e nella modestia della cerimonia e del luogo, non per questo però sono persone che valgono di meno, che hanno meno dignità; ecco il messaggio che si vuole far passare, sono di origini umili, fanno una vita modesta ma sono persone e per questo hanno la dignità di qualsiasi altro uomo e meritano di essere rappresentati su una tela riservata alla grandezza della classicità.

Nel corso della storia dell’arte vari artisti assorbono il messaggio “emancipazionista” di Courbet: tra questi James Ensor. In questo artista il realismo non è inteso come mimesi della natura, d’altronde è figlio di movimenti come l’impressionismo ed il divisionismo in cui c’è un sistematico allontanamento dal tipo di mimesi dell’accademia; il realismo che deve essere rappresentato è quello degli uomini, la loro reale condizione. Ensor non era ben accetto dalla società dell’epoca, non solo per le sue accuse ma anche per il suo stile non certo accademico (le sue opere, come quelle di Courbet, non erano accettate ai Salon). Le accuse del pittore sono dirette principalmente verso la sua società, così oppressa dalla falsità dell’apparenza e formata non più da persone, ma da maschere e scheletri; infatti il pittore stesso dice: “ L’artista e l’individuo restano sempre più isolati, nell’impossibilità di specchiarsi o di entrare in dialogo con gli altri “. Le sue opere sono principalmente basate sulla tendenza al gioco, sull’elaborazione ornamentale e sulla capacità di strutturazione ordinata dell’immagine.

Nel caso di “scheletri che si riscaldano” si comprende benissimo il paradosso tra il bisogno umano del calore e il corpo inesistente, fatto solamente di ossa che non possono ricevere calore; oppure in “scheletri si disputano un osso umano” c’è la lotta per contendersi quello che dovrebbe essere cibo, anche qui un cibo che non può portare alcuna soddisfazione, lo scheletro non può certo estrarre da solo il nutrimento. In entrambi i casi si parla di bisogni appartenenti all’umano che però sono destinati a rimanere inappagati a causa di quello che l’uomo è diventato; all’interno sente ancora tutto ciò che è collegato al suo essere uomo, ma all’esterno questo non ha riscontro. Egli ha basato la sua vita così tanto sulle falsità e le convenzioni della società che questa l’ha portato ad avere solo l’aspetto di ciò che resta di un uomo dopo la morte, non di un uomo vero e reale.

Dall’altro lato troviamo “L’entrata di Cristo a Bruxelles” (oggi al Musée Royal des Beaux-Arts di Anversa), opera che si presenta come celebrativa, ma il tutto è smorzato dall’ironica decontestualizzazione. La trasposizione temporale, infatti, colloca il fatto all’epoca moderna in una città brulicante di folla e alla presenza di una banda di militari in divisa. L’atmosfera è quella di una manifestazione di piazza in cui Cristo, al centro della tela, avanza a fatica, in mezzo a una folla pressante fatta di maschere e fantocci; la figura divina viene privata di qualsiasi carisma e il simbolo del cristianesimo perde di qualunque significato profondo, diventando maschera al pari delle altre. In questo modo la verità, che in qualche modo cerca di arrivare agli uomini, anche se a fatica, si perde in mezzo al caos e alla menzogna; sono gli uomini stessi che la allontanano da sé, impedendole di manifestarsi. Quindi il simbolo della fede cristiana diventa un pretesto di una critica alla società moderna, ridotta ad una congrega di fantocci urlanti e indifferenti, personaggi caricaturali volutamente volgari.

Entrambi gli artisti quindi approdano a una pittura realista, sebbene in modi differenti: se Courbet ne è il vero iniziatore, colui che crede nella rappresentazione della vera realtà per scoprire i meccanismi che la attuano, Ensor la rivaluta in chiave satirica per esercitare una forte critica sulla società a cui apparteneva.

Cristina Cattaneo

Madonna con discordia

Troppo spesso si sente dire che il più famoso e diffuso soggetto artistico, nonché il più odiato e incompreso, è quello della “Madonna con bambino”. Anche in ambiti accademici si sente molto spesso proferire espressioni del tipo: “sono tutte uguali” oppure “non comunicano nulla”. Questa terrificante leggenda va assolutamente sfatata.

Nell’ambito dell’arte moderna si può notare un’enorme differenza tra una “Maria con bambino” di Giotto e una di Raffaello o Leonardo, e non solo per l’enorme differenza di stile che contraddistingue queste personalità artistiche. Se si prende in considerazione una “Madonna in trono” di Duccio di Buoninsegna oppure di Giotto vedremo che la composizione si articola in modo centripeto verso lo scranno su cui la donna è seduta con il piccolo bambino in grembo; attorno a una corona di angeli accalcati l’uno sopra l’altro per osservare la scena, con la più totale assenza di una qualsiasi struttura prospettica. Lo sfondo è indistinto nella maggior parte dei casi, quasi sempre una parete di colore oro, mentre talvolta qualche tendaggio va a decorare le zone laterali della composizione.

Con Gentile da Fabriano gli sfondi continuano ad essere del medesimo colore però si compie un evoluzione nei panneggi, che si ammorbidiscono visibilmente e acquisiscono pieghe accurate colme di luci e ombre che le rendono eccezionalmente vicine al reale: sembra quasi di poter toccare il velluto che si palesa davanti agli occhi dell’osservatore.

All’inizio del 1500 grazie alle prime opere fiamminghe circolanti in Italia Antonello da Messina intuisce un nuovo modo di pittura, basato sulle tecniche a olio, che vede i pigmenti amalgamarsi e strutturarsi in modo diverso rispetto a prima, e infatti in questo concetto egli inizierà a concepire variazioni sul tema, il cui sfondo non è più monocromo oro ma vede ampi colonnati e loggiati che sembrano inondare l’amorevole coppia materna dallo sfondo della composizione attraverso intensi fasci di luce.  Si aprono enormi finestroni dai quali si riescono persino a intravedere piccoli scorci di panorami bucolici, il che inizia a dare alla scena pittorica quel concetto di profondità che con Leonardo arriverà al suo culmine. Infatti proprio grazie al pittore di Vinci vengono introdotti complessi paesaggi oscuri: grotte, loggiati e cortili porticati; non vi vediamo più però quegli ampi finestroni che inondavano la scena di fasci di luce che rendevano nette le figure della madre e del bambino, le quali adesso sono avvolte da cupe e fredde ombre che aiutano ad esprimere quella misteriosa ambiguità mista di sorrisi e gesti quasi criptici.

Un caso particolare è costituito da Giovanni Bellini il quale inserisce la dolce coppia in enormi prati rigogliosi e dietro le cui spalle posiziona alberi a volte colmi di frutti e foglie e altre volte spogli e scarni; la luce è quasi zenitale e va a colpire il bambino in pieno rendendone l’incarnato di un bianco quasi anomalo; l’epidermide dei due personaggi diventa quasi di fine porcellana.

Negli anni seguenti vi sono ancora alcune riproduzioni di questo soggetto mariano, sia da parte dei fiamminghi (che in questa sede non abbiamo citato) sia da parte di pittori italiani. Tuttavia con il 1600 (eccetto poche eccezioni) abbiamo la fine di quest’onda innovatrice: pittori come Caravaggio o Tiepolo torneranno a concentrarsi su episodi mitologici ed evangelici.

Ludovico Barletta

La nostra Venere

Quale pensiamo che sia il nostro ideale di bellezza femminile? Ci capita spesso di guardare una ragazza avvenente per strada e notarne le piacevoli curve del corpo o l’accuratezza del viso, tuttavia può presentarsi un dilemma: Quando entriamo al museo degli Uffizi è molto probabile che ci piaccia un’opera come la Venere del Botticelli. Perché? Il motivo non si trova tanto nelle forme, infatti osservando attentamente potremo notare che anatomicamente la donna ritratta è sproporzionata in numerosi punti: il collo ha una torsione irregolare ed è eccessivamente lungo, ugualmente il braccio sinistro della donna, quello che copre con una ciocca di fluenti capelli il proprio sesso,che risulta inoltre grosso e poco aggraziato. Eppure quando contempliamo questo dipinto potremmo passare lunghi minuti a guardarlo in tutta la sua sfolgorante avvenenza. Questa grande fortuna ci è data in quanto Botticelli ha saputo rendere la bellezza della donna in quanto tale, che avrebbe reso l’opera piuttosto piatta e banale, infatti non si noterebbe più l’intrinseca genialità, ma la sola e pura perfezione delle curve, che certo stupisce, ma fino a un certo punto. Invece questa imperfetta perfezione-uso quest’espressione di proposito- fa si che quella figura attraverso le sue anomalie possa essere per noi fonte di ammirazione e fascino. Quindi basta con le espressioni odierne di femminilità votate alla totale assenza di difetti: capelli perfettamente lisci, trucco calcolato al millimetro e unghie immacolate! Diciamolo, vogliamo donne imperfette come questa venere: dai capelli mossi e un poco caotici, la postura sinuosa ma non particolarmente curata, gli arti un poco sproporzionati, proprio in nome di quell’antiomologazione che invece oggi sembra far fatica a vincere il concetto di uniformità delle espressioni estetiche corporali femminili.

Ludovico Barletta

Un Amore Viziato

Conoscete la storia di Sansone e Dalila? Oltre ad essere il soggetto di bellissime opere d’arte è anche una storia molto avvincente. Si narra che Sansone fosse il giudice d’Israele e che possedesse un enorme forza grazie alla sua folta chioma, non per nulla era stato eletto a capo dei Nazirei, l’elite della società ebraica. Però la sua forza creava grandissima invidia tra i filistei, i quali nonostante i molti tentativi, non riuscivano mai a legarlo e sconfiggerlo, così decisero di appellarsi a Dalila, donna di grande fascino, che attraverso la sua avvenenza riuscì a farsi confessare quale fosse il segreto della forza dell’eroe ebraico, e saputolo addormentò l’innamorato con una pozione e ne tagliò i capelli. Così i filistei riuscirono a catturarlo, cavarne gli occhi ed esibirlo a Gaza come trofeo pubblico.

Ora, di questa patetica storia, possediamo molte opere, due delle quali andrebbero evidenziate. La prima è quella di Peter Paul Rubens, che attraverso la sua mirabile capacità di commistione dei colori caldi (giallo e rosso in primis) riesce a rendere con grande emozione il momento in cui la donna filistea tradisce il azareno e ne ha tagliato parte della chioma. Sullo sfondo si può scorgere la folla di filistei assiepata e pronta a catturare l’eroe israelita. Meravigliosa è la maniera in cui il pittore nativo di Siegen riesce ad adagiare il massiccio corpo dell’uomo tra le grinfie della donna, avvolgendoli in un abbraccio di luce e penombra che ci fa vivere la scena con grande trasporto.

Un altro grandissimo fiammingo, Antoon Van Dyck, imprime sulla tela gli istanti di poco seguenti a quelli dipinti da Rubens. Infatti possiamo vedere Sansone dimenarsi, assalito dai filistei, inutilmente perché oramai privato della sua chioma e, quindi, della sua straordinaria forza, salvo aver compreso oramai che la donna lo ha tradito: sul suo volto Van Dyck riesce a dipingere tutta la sintesi della disperazione data da un tradimento che è tanto più doloroso quanto era grande l’amore dell’eroe ebraico per la donna filistea. Il pittore di Anversa ha uno stile assai diverso da Rubens, infatti tratta i colori più freddamente, il che ci porta a guardare la scena con occhio più distaccato e oggettivo. Curioso è come ai piedi della donna vi sia un cagnolino, che per antonomasia è il simbolo della fedeltà.

Ludovico Barletta

Il “Grazioso” Canova

Come si fa a rimanere impassibili di fronte alla famosissima statua di Amore che abbraccia Psiche? I due corpi che si incrociano rapiscono lo sguardo suscitando un’immediata tenerezza, facendo percepire palesemente l’amore che li unisce. Chi non rimane affascinato da Napoleone rappresentato come Marte vincitore nel cortile dell’Accademia di Brera? Una statua che dall’imperatore più famoso dei francesi viene rifiutata perché è rappresentato senza veli, mentre in realtà sprigiona potenza e autorità, probabilmente anche perché non era proprio un “ritratto” fedele del monarca. Cosa si può dire poi della sensualissima Paolina Borghese? La quale addirittura viene posta su un meccanismo semovente, in modo tale da poterla orientare ogni volta in base alla luce per far cogliere la sua bellezza.

Tutto questo si realizza grazie all’opera di un grandioso autore (per quanto mi riguarda, uno dei miei preferiti) che riesce a far sì che i suoi lavori non siano solo arte, ma siano vera e propria vita: Antonio Canova. Io che inizialmente ero restia davanti alla scultura dopo l’incontro con le statue di quest’uomo ho avuto un ripensamento, sono riuscita a cogliere qualcosa che prima non vedevo. Cosa mi ha colpito così tanto? La sua “grazia”; sì, scritto tra virgolette perché non è una qualità che attribuisco io alle sculture canoviane ma lui stesso. Lui per primo vuole dare ai suoi personaggi questa caratteristica e ne teorizza una sua personale visione. Secondo Canova ogni statua deve essere in grado di comunicare, comunicare qualsiasi cosa, uno stato d’animo, un’emozione, un’impressione…

Deve essere in grado di “interagire” con il fruitore che si trova di fronte, non per forza ogni volta nello stesso modo, non con gli stessi scopi e non con gli stessi risultati. Quindi la “grazia” è una peculiarità che partecipa allo stesso modo dell’opera, così come di colui che in quel momento la guarda, è quel qualcosa che permette allo spettatore e alla statua di entrare in sintonia in modo che il primo riesca a percepire l’arte contenuta nella seconda. Questo, se ci si pensa, è un modo molto personale di vedere l’arte perché, al contrario di come si è sempre pensato, in un certo qual modo l’opera ha bisogno non solo dell’artista per vivere, ma anche di qualcuno che la recepisca in quanto tale, sebbene ogni volta in maniera diversa e con emozioni differenti. Non è solo l’arte che si manifesta in quanto tale, perchè qui si sta dicendo che l’arte, senza qualcuno che ne gode, non può esistere; come si nota un’affermazione molto forte e soprattutto in contrasto con tutto quello che dell’arte si era detto prima. Teniamo conto che Michelangelo un paio di secoli prima aveva affermato che la materia vitale era insita nel materiale e l’artista aveva il solo compito di farla emergere, come se il marmo piuttosto che il legno “facessero tutto da soli” e quindi non avessero bisogno di niente, se non di quella mano amica che fisicamente li liberasse. Un concetto altrettanto nobile, ma radicalmente diverso.

Canova rappresenta ciò che nel Settecento viene definito “genio” (ossia colui che crea) e credo che questa definizione calzi perfettamente; per capirlo basta provare a sostare davanti a una delle sue opere e prestare attenzione a questa per qualche minuto. Come succede nella vita, con le persone, sono incontri che non si dimenticano.

Cristina Cattaneo